Franco Borgogno e Silvio A. Merciai

  Incontrare Bion: Cogitations, un nuovo "Diario clinico"?

 

 

La situazione psicoanalitica stimola delle sensazioni molto primitive, incluse le sensazioni di dipendenza e di isolamento; sono entrambe delle sensazioni sgradevoli. Perciò non c'è davvero da meravigliarsi se un membro della coppia, e probabilmente tutti e due, sono consapevoli del fatto che la zattera psicoanalitica a cui si attaccano nella stanza d'analisi - naturalmente molto ben mascherata e con sedie confortevoli e ogni comodità moderna - nondimeno è una zattera precaria in un mare tumultuoso. (W. R. Bion, Seminari Italiani, 1983, pag. 33)

 

Premessa

  Presentiamo queste note nello spirito con cui abbiamo contribuito a promuovere e organizzare la Conference su Bion: quello di cominciare a fare il punto - con la massima libertà e onestà possibili - su quanto del suo pensiero si affacci fecondamente sulla psicoanalisi futura.

  Sappiamo e ve lo anticipiamo - a partire da ciò che è successo a noi, via via che emergevano e prima che si consolidassero in meditata elaborazione - che alcune delle tesi che sosterremo potranno risultare inquietanti e forse persino urtanti.

  Perché porgervele, dunque? Perché innanzi tutto riteniamo diritto-dovere primario dell'analista - in seduta e quando parla con i colleghi - quello di essere fedele a se stesso, alle sue percezioni e sensazioni nella sua comprensione, così come essa viene a formarsi nell'incontro con l'altro e nonostante comporti idee che possano suonare, già a lui, disturbanti e selvagge.  

Ci conforta inoltre nell'esporvele la consapevolezza di sentirle fondate su un cospicuo tragitto di lettura e di riflessione e di nutrire un genuino desiderio di condividerle, nell'attesa che esse possano ancora crescere grazie all'ascolto e al confronto che ci offrirete.

  Una prospettiva squisitamente 'bioniana', a ragion veduta si potrà ora dire. Siamo d'accordo che lo sia, ma ci teniamo subito a precisare che non la consideriamo una prerogativa specifica di Bion e tanto meno una sua esclusiva. Si tratta infatti, per noi, della sostanza nobile del metodo conoscitivo inaugurato da Freud, che è parte esemplare del cammino di molti psicoanalisti che, come Bion, hanno sviluppato la nostra disciplina, lottando con altrettanto impegno contro gli aspetti gergali della rappresentazione dell'esperienza psicoanalitica.

  Articolare e utilizzare una propria voce, riconoscendola nei limiti e nelle contraddizioni che ogni esprimersi personale inevitabilmente reca con sé è - come si sarà capito - un valore importante nella nostra visione della psicoanalisi e della sua storia. In quanto tale costituirà uno dei vertici centrali da cui si diparte e si snoda l'intero nostro discorso, che accosterà a Bion almeno altri due psicoanalisti che si sono mossi in questa stessa direzione: Ferenczi, cui il titolo del nostro lavoro allude, e Winnicott.

 

Leggere Bion.

  Un gioco di specchi, con tante prospettive forse illusorie e ingannevoli. Questa l'impressione che si andava radicando in noi a confronto con la non facile frequentazione della letteratura di Bion e su Bion. E con alcune sensazioni e fatti che sempre più ci colpivano e ci lasciavano perplessi …

  In primo luogo il fastidio per la moda Bion. Per questo suo essere trattato da parecchi autori - in Italia, ma non solo - come una sorta di citazione e di riferimento d'obbligo; quasi che l'essere bioniani o comunque richiamare e riportare sue teorie ed espressioni - per lo più frammenti isolati della sua opera, non raramente assurti a rappresentanti della vera significazione del suo pensiero - fosse di per sé contrassegno di modernità psicoanalitica.

  Poi l'ingiustificata mutilazione della sua produzione e del suo insegnamento, visto che nella maggioranza dei testi incontrati Bion sembra non aver più scritto alcunché di significativo dopo Attenzione e Interpretazione. Eppure, successivamente a quest'opera, si situa più della metà delle pagine da lui pubblicate; e ciò anche a voler escludere i suoi lavori più specificamente autobiografici, come The Long Week-End .

  Perché avviene questo, ci domandavamo? Per la paura di un pensiero più personale e non schierato, ancora pregno di emozione e di nuclei embrionali non sufficientemente elaborati, come postula Parthenope Bion Talamo? E dunque a causa del bisogno istituzionalizzante, così ricorrente nell'evoluzione della psicoanalisi, di rinchiudere gli autori all'interno di precise famiglie e scuole? Ma Bion - giova qui ricordarlo - se ne era andato, ad un certo punto, dalla Gran Bretagna proprio per ribellarsi a questo gioco di incasellamento, che sentiva fortemente limitante la libertà del suo pensiero; e si rammaricò ripetutamente, in Cogitations e anche in alcune delle sue lettere pubblicate, di continuare nonostante tutto ad essere considerato, anche negli Stati Uniti, un "kleiniano", come se questo definisse ed esaurisse la portata del suo contributo psicoanalitico.

  E infine il tono con cui spesso si parla di Bion: oltremodo idealizzante, fino a glorificarlo come spirito santo della trinità del nostro olimpo (costituita da Freud, dalla Klein e da Bion), senza che al parlare in questi termini corrisponda in molti casi una conoscenza approfondita e critica della storia della psicoanalisi. Ma, ignorando la sfaccettata e complessa congerie di idee che l'hanno attraversata e nutrita (andamento purtroppo così comune fra noi!), non si finisce con il disconoscere e non indagare la reale portata delle novità di metodo e di contenuto introdotte da Bion? Procedendo come se non ci fosse intorno a lui un retroterra di pensiero e di colleghi che hanno affrontato, in modo peraltro non così dissimile, gli stessi suoi problemi, non si perde la possibilità stessa di rendere differenziato e specifico il suo contributo? Non se ne riduce, in sostanza, la ricchezza di percorso, quand'anche questo possa rivelarsi non così coerente e smaltato come magari lo si vorrebbe, e neppure così unico e singolare?

  Sicuramente Bion, dal canto suo, non ha semplificato le cose: il suo discorso è in più punti astruso, enigmatico e ambiguo e quasi mai riconosce esplicitamente influenze e debiti verso questo o quello psicoanalista, con la sola eccezione di Freud e della Klein. E in aggiunta a ciò il suo stile, per lo più conciso e apparentemente apodittico, è a tratti squarciato e illuminato da brillanti e suggestive formulazioni (si pensi a "assunti di base", "memoria e desiderio", "contenitore/contenuto", "oscillazione PS<->D", "cambiamento catastrofico", "saturo/insaturo", "apprendere dall'esperienza", ecc.) che affascinano la mente del lettore invitandola a cristallizzarle in essa, a tutto danno di un apprezzamento più equilibrato della ben più complessa poliedricità e mutevolezza di ragionamento che rivela.

  Ma, trasformando Bion in un ingombrante maître à penser, si onora davvero il suo messaggio o, al contrario, non lo si affossa del tutto, come lui stesso temeva, in una sacralizzazione istituzionalizzata? Se fosse così, verrebbe ovviamente obliterata quella funzione di ascolto, ricerca e creatività che egli instancabilmente aveva invece indicato come fondante l'esperienza analitica e umana.

  Queste osservazioni ci facevano provare crescenti sentimenti di disagio. Sentivamo che alcune parti del suo pensiero sono vive e feconde per lo sviluppo della nostra comunità, ma avevamo l'impressione di seguire una nostra strada più disincantata ed eterodossa. Ci accorgevamo che stavamo anche noi costruendoci un nostro Bion, sempre più persuasi, non senza molta insicurezza, che la storia delle sue idee - luci ed ombre comprese - fosse ancora in gran parte da scrivere e che valesse la pena di farlo, per rispetto a lui e per tutti noi.

 

Incontrare Bion.

  Il nostro incontro con Bion ha avuto anche un'altra caratteristica: non lo abbiamo conosciuto né come persona, né come analista, né come supervisore, a differenza di molti dei relatori presenti alla Conference. Con chi confrontare, dunque, l'immagine di Bion che eravamo andati man mano costruendoci e che suonava in parte discordante da quella ufficiale della letteratura su di lui? Con i ritratti del dr. Bion lasciati da alcuni suoi ex-allievi o ex-pazienti? Ma ci sembrava anche qui di imbatterci spesso in descrizioni idealizzanti e solo a tratti riconoscibili. Con Parthenope e assegnarle così l'impossibile ruolo di mediatrice e interprete dell'eredità di suo padre? Perché, più il nostro Bion si discostava da quello usuale, più avremmo voluto, attraverso la sua testimonianza e il suo ricordo, trovare un qualche rassicurante fondamento alle nostre impressioni. Non è della persona in quanto tale che volevamo sapere, naturalmente (pur considerando le qualità umane dell'analista assai rilevanti e influenti nella relazione con il paziente), ma delle sue modalità di ascolto, del suo atteggiamento emotivo come terapeuta e come maestro, del suo livello di empatia e sintonia nei differenti momenti di un'analisi.

  D'altra parte, intuivamo che Bion dovevamo continuare a trovarcelo da soli, dentro le risonanze del suo discorso e nei sentimenti e nei pensieri ch'egli ci destava. Questa, certamente, era la chiave di lettura che lui stesso aveva richiesto di adottare. Dove trovare però le emozioni nelle sue opere 'classiche', in quelle pagine così grevi ed ellittiche che andavamo studiando? Perché Bion aveva espunto ogni traccia di affettività? Dove stava il Bion che tanto aveva sottolineato che la crescita umana e la stessa formazione del pensiero avvengono solo nell'esperienza - emozionale - di un incontro? Come potevamo mettere insieme il nostro, in qualche modo, sentirci suoi 'allievi' - se non altro per tutte le letture fatte - con il continuare a imbatterci in qualcosa di così lontano dalla nostra esperienza quotidiana di vita e di analisi?

  Trovarlo sulla lunghezza d'onda da noi assunta di attenzione nell'incontro ai bisogni e ai sentimenti dell'altro - era lì che ci aspettavamo di trovarlo! - cominciava sempre più a sembrarci una forzatura, un volere a tutti i costi farlo rientrare dentro al nostro modello di analisi che è imperniato sulla cura nel doppio significato che questa parola ha in italiano, corrispondente ai due termini inglesi di treatment e concern. Non potevamo accettare l'idea che Bion fosse soltanto - e avesse voluto essere soltanto - un pensatore, interessato all'osservazione e alla conoscenza; sia pure, in ciò, un innovatore dirompente.

  La difficoltà a sintonizzarci con lui, con il suo linguaggio, con il suo stile espositivo - in molti passaggi a noi francamente incomprensibile - non la ritenevamo d'altronde un semplice affar nostro. Non poteva dipendere soltanto da nostra ignoranza o da nostre resistenze mentali. Doveva esserci qualcosa che lui stesso produceva: una specie di distanza e freddezza, che frustrava ogni desiderio di capirlo e di incontrarlo. E a questo proposito ci sentivamo consonanti con Donald Meltzer, uno dei suoi colleghi che più hanno scritto di lui, quando parla di un Bion che rifugge con ostentazione ogni dimensione di cura e di sollievo, creando in chi cerca di seguirlo e di ascoltarlo inferiorità e disagio, o confusione e stupidità, con tattica tipicamente militare. Mentre a Parthenope Bion Talamo, che ripeteva che era peculiare di Bion una scrittura "essenziale" ed "evocativa di emozioni", ci veniva di rispondere, contrapponendoci, che essenziale non vuol dire affatto incompleto e oscuro e, quanto all'evocatività, che la lettura degli scritti classici di Bion suscitava, sì, emozioni, ma nell'ambito di un registro tonale alquanto limitato e particolare (rifiuto, irritazione, inadeguatezza, sarcasmo, …).

  E' più o meno mentre stavamo meditando su queste cose che comparve alla nostra attenzione Cogitations. Avevamo scorso la recensione di André Green (1992) che evidenziava l' "eccezionale ricchezza di queste sue note", alludendo a una "boccata di aria fresca dal mare aperto", e a un libro in cui "lo possiamo letteralmente seguire". Speravamo perciò che almeno i suoi appunti privati ci offrissero conferma alle nostre ipotesi e accesso diretto al mondo delle sue emozioni ...

 

Cogitations, un Diario Clinico?

  Il primo impatto con la lettura di Cogitations ci ha invece rimandato in piena confusione circa la qualità reale dell'opera e dell'insegnamento bioniano. Se la nostra aspettativa era di un nuovo Diario Clinico à la Ferenczi, dobbiamo dire che siamo stati subito disattesi dal momento che Cogitations è, di primo acchito, l'esatto contrario. Mostra infatti proprio ciò che Ferenczi antesignanamente denunciava nel 1932 alla comunità analitica con il suo diario clinico: un' "attenzione non adeguata alle comunicazioni degli analizzati, dense di emozioni ed esposte con grande difficoltà" (1985, pag. 47).

  Ma, al di là di questo, se è vero, come sostiene Parthenope Bion Talamo, che Bion intendeva pubblicare le sue note, tanto che se le era portate sempre appresso nelle sue traversate fra vecchio e nuovo continente, anche Bion come Ferenczi potrebbe segretamente aver desiderato di mettere impietosamente a nudo di fronte ai colleghi la pigrizia mentale e l'insensibilità dell'analista. Quelle che Ferenczi imputava primariamente al Freud che, accecato dalla sua passione teorica, non ascoltava più il paziente e ne fraintendeva il messaggio; e che Ferenczi stesso, senza pudore, riconosceva coraggiosamente in sé, nell'odio, nell'apatia, nella malavoglia per sentirsi chiamato in causa in tutta la sua persona all'interno dell'analisi.

  Da siffatto punto di vista Cogitations potrebbe essere elettivamente un nuovo diario clinico, per l'onestà con cui Bion offre allo sguardo della comunità la tragedia che lo attraversa in quegli anni di vita, allorché cerca di uscire dall'anonimato che il coro di cui fa parte gli prescrive, svelando qualcosa di molto intimo e personale del suo funzionamento mentale, sia al lavoro nella seduta sia a tavolino quando riflette e teorizza. Aspetto, questo, che in particolare il gruppo kleiniano non permetteva in quel momento storico, trattando con molto sospetto e con molta cupa e severa censura ogni soggettività dell'analista. Con quello stesso sospetto e quella stessa censura che, a livello internazionale, hanno permesso che l'intera opera di Ferenczi per decenni fosse espulsa e radiata dal dibattito psicoanalitico e fatta oggetto di pettegolezzo e chiacchiera, spesso infamanti e gratuiti.

  Ma qual è la tragedia che Cogitations appalesa? Quella di riuscire a scorgere con estrema lucidità come l'istituzione, in nome di una supposta verità, possa giungere ad uccidere l'individuo nella sua specificità e unicità; e nonostante questa consapevolezza rimanere imbrigliato e imbrogliato nella medesima prospettiva che si combatte. Bion, in molti punti di Cogitations, lo sottolineiamo, smaschera il "social-ismo" quando in modo quasi delirante richiede al singolo di autoeliminarsi a favore del gruppo, rivalorizzando con coraggio il "narcis-ismo" come possibile risposta sana alle omicide pressioni gruppali e atto potenziale di vita e di libertà, quando il soggetto è bandito, estirpato e costretto all'esodo.

  Bion, nell'arco di tempo che le Cogitations ricoprono, sarebbe così l'eroe tragico che, nella lotta per l'identità, soccombe e non la raggiunge perché ancora accecato dall'amore verso chi l'ha nutrito e ne ha risvegliato la passione analitica. Verso Melanie Klein e il suo sistema di pensiero, a cui guarda con totale assenza di elaborazione critica, facendone combaciare le tesi - con sorprendente e inusitata ingenuità - alla verità con la V maiuscola.

  E' in questo senso, quindi, che, a nostro avviso, nell'altalena fra 'sapere' e 'non sapere', fra 'ascoltare il paziente e se stesso' o 'il gruppo', l'istituzione e il dogma hanno in Cogitations la meglio su di lui, con il sacrificio e l'elusione di "reverie" e di "lavoro-del-sogno-a " che, seppur teoricamente, già gli indicavano di accoppiarsi nell'incontro alla bestia confusa e incerta che alberga in ciascuno di noi. Per emettere magari un semplice grugnito come segnale di futura voce individualizzata, svincolata da quelle catene mortifere che attentano alla soggettività di ogni impresa di pensiero, umile e aurorale.

  Il tragico bioniano nella riflessione di Cogitations è dunque la scissione assoluta fra pensiero teorico e atteggiamento clinico. Il pensiero teorico approda - l'abbiamo appena detto - a "reverie" e a "lavoro-del-sogno-a " (concetto che si inserisce curiosamente in una cogitation dal titolo "La comunicazione"), ma ogni metabolizzazione più pacata, fluida e sognante continua ad essere impedita e sbarrata. E' inquietante il rapporto che Bion intrattiene con il "sistema deduttivo conosciuto" a cui egli si rifà, che funge praticamente da anti-pensiero e anti-evoluzione, prevaricando il contesto relazionale dell'hic et nunc, da cui qualsivoglia significazione dovrebbe partire visto che l'analisi si svolge emozionalmente in esso.

  Già Winnicott, in una famosa lettera del 7 ottobre 1955, aveva suggerito a Bion - per lui "grande uomo del futuro" della Società Psicoanalitica Britannica - di ampliare il suo ascolto mettendosi in contatto con altre voci che non fossero unicamente quelle votate alla "causa kleiniana". In questa direzione gli proponeva di poter leggere il suo ricco materiale in termini di maggiore vicinanza emotiva, di dialogo interattivo tra paziente e analista: vedendo ad esempio l' "avrei dovuto telefonare a mia madre" del suo paziente, l'irrequietezza sul divano e l'evidente "venir meno di elementi personali" dell'ambiente che l'aveva cresciuto come un tentativo di comunicazione, seppur chiaramente difficoltoso.

  Ma Bion, a distanza di alcuni anni dalla franca e calda perorazione di Winnicott a favore del paziente, che dev'essere accostato a suo avviso più democraticamente come baby e non solo come crazy, non poteva ancora avvalersene e non poteva rendersi conto che davvero il paziente stava comunicando con lui nella seduta, segnalandogli la geografia affettiva delle reciproche mosse e posizioni. Non cogliendo questo livello centrale dell'analisi, che Ferenczi aveva acutamente intuito e seguito fin dai suoi primi scritti e che lo stesso Freud aveva raggiunto nel caso del piccolo Hans (Borgogno, 1997), quando nella veste di supervisore aveva potuto gettare un secondo sguardo sul suo lavoro di analista ben poco recettivo nei confronti delle ragioni e delle sensibili percezioni inconsce del paziente, Bion sembra così render vano e morto l'appello disperato che il suo paziente gli rivolge.

  Come spiegare altrimenti la sua sordità di fronte a racconti in analisi di un "golfino fatto sapientemente a maglia" dalla moglie "ma che non va bene per il raffreddore del bebé" e "di treni che non si comportavano come avrebbero dovuto"? Di fronte alla rappresentazione allucinata, pochi giorni dopo, di se stesso in seduta come la "moglie morta" del paziente? O di fronte a sogni come quello di essere con una donna "in un autobus vecchio stile", i cui finestrini erano chiusi e non apribili, perché "un uomo burbero, che mi ricordava lei, mi era molto ostile" e impediva di aprirli sicché mancava l'aria?

  In tutti questi passi Bion pare non esser mai in condizione di comprendere il materiale all'interno di un dialogo che lo implichi nel ruolo di attore rilevante e influente; e mai sostiene e appoggia, facilitandola, un'opera di alfabetizzazione appropriata a quella situazione specifica. Si mostra, piuttosto, in posizione -K, poiché le sue parole sono frutto di una mente sola e, per nulla affatto, esito di una mente all'unisono con quella del paziente, come egli si stava accingendo a teorizzare.

  Non si vede pertanto attraverso quale via i pazienti in questione potessero superare l'esclusione invidiosa dalla scena primaria che egli si ostina a interpretar loro, senza concedere alcun'altra alternativa. Bion suona infatti in tutto questo periodo ossessivamente un'unica partitura, l'attacco al legame, che diventa realmente - come sosteneva Winnicott nella lettera citata in precedenza - un "motivetto" da "sigle musicali", che distrugge ogni possibilità di conoscenza. Il suo modo di porsi con essi esibisce, inoltre, uno sfacciato e preponderante interesse e legame con un'analisi ideale e con il gruppo di riferimento, assai superiore all'attenzione al benessere del paziente e ai suoi accorati e ripetuti messaggi.

  Fermarsi, tuttavia, a questi commenti sarebbe fare un grave torto a Bion, poiché - se si leggono in sequenza con spirito analitico le Cogitations, da cui, forse con eccessiva disinvoltura, abbiamo estrapolato le frasi su riportate - si intravede e si apprezza tutta la drammaticità dell'uomo Bion nella sua esplorazione privata che ha come tema di fondo un filo inconscio, il cui titolo potrebbe essere: chi uccide chi?

  E' rispetto a questa domanda che nasce, nelle pagine prese in esame, il tormento e l'angoscia dell'interrogazione di Bion, che parte da una teoria che esige (a nostro parere ingiustamente, e cioè senza equanime criterio distributivo) che sia il paziente per invidia ad attaccare sempre e comunque l'analista e la sua "buona interpretazione", per approdare all'idea, insolita in quel contesto gruppale e ideativo, che possa essere talvolta lo stesso analista a uccidere il paziente con la sua visione troppo intelligente e brillante - ma ristretta e scostante - che lo paralizza e colpevolizza per ciò che metacomunica al di là dei contenuti. Sono, questi, esigui sprazzi di libertà e di apertura, che Bion non sembra capace per ora di sostenere; ma vi sta pensando in modo estremamente serio, giungendo a dire che "l'invidia primaria" che "preclude ogni gratificazione" è spiegazione da sospettare, perché magari "realizzazione prematura o allucinatoria" del credo abbracciato dall'analista e non risultato di esperienza lenta e progressiva di un incontro, che sappia tollerare le vicissitudini disturbate e disturbanti del rapporto.

  Può darsi che noi si sia inguaribili romantici e deboli pensatori (ci si sente così confrontandosi a lui mentre lo si legge) nel ritenere, immedesimandoci con i suoi pazienti, che essi potessero aver avuto bisogno di più funzione di "madre" e di meno "leader intellettuale" e che di conseguenza avrebbero potuto approfittare più proficuamente di un analista se questi avesse generosamente accettato di essere usato e variamente composto dalle loro molteplici esigenze, a costo di poter anche essere momentaneamente parassitato e di parassitare. Minor morality, vorremmo dire, e più play, per rimettere in moto un pensiero misero e bloccato e così accedere a narrazione effettivamente convissuta e condivisa, che rispetti l'idioma particolare del paziente sapendo non imporsi fuori tempo.

  E' proprio un tal tipo di spazio che a Bion manca in questi anni. Uno spazio affettivo, transizionale e intermedio, che non saturi germi di espressività vitale inconsapevoli e non ancora nati psichicamente sostituendovi un'asfissiante e perentoria teoria della formazione dei sintomi o "concetti in espansione" e costruzioni "trappole per la luce" (come lui stesso li chiama) che lo tengono lontano dall'ignoto dei sentimenti della relazione presente e dagli aspetti femminili ricettivi del contenimento.

  Difetterebbe, in sintesi, in questo Bion il potersi realmente offrire come contenitore perché tutto preso dal focalizzare la seduta quale scacchiera e spazio agonistico ai fini di preservare la vita (a scapito dell'umanità, però) dall'assassinio che - ahimé! - compierà prima o poi il paziente. Triste pensare che il Bion di cui si sta parlando non assolvesse neppure il neonato da questo nefasto evento, poiché lo stesso neonato fin dal primo istante di vita "ucciderebbe" - sapendolo (dice Bion) - la conoscenza e l'oggetto che la nutre per l'invidia che suscitano. Un Bion spietato, che crede con questa presunta "verità" di avviare quell'operazione psicoanalitica audace che promuoverebbe crescita mentale ed emozionale, mentre noi, come già Paula Heimann (1989), non vi vediamo che richiesta di sottomissione e di colonizzazione dell'altro, dentro e fuori di sé, attraverso idealizzazione e terrori primitivi di natura suggestiva.

  Altro che senza memoria e senza desiderio! Altro che disponibilità a soggiornare pazientemente in condizioni di non differenziazione e di dubbio o capacità di reverie immaginativa, rilassata e rasserenante nella sua dedizione al paziente. Bion sembra qui non conoscere minimamente queste qualità ed è probabile che scrivendovi su inizi lui stesso a mettere in discussione "riverenza e timor sacro" (così si intitolerà una cogitation del 1967) e "memoria e desiderio" (appunti successivi alla precedente cogitation), per sganciarsi dalle "lande aride del gergo" e dall'idolatra follia del sapere militante, che aborre ogni traccia d'ignoranza, povertà e piccolezza, comuni nei genuini accoppiamenti che alimentano i misteriosi processi dell'analisi.

  Un itinerario che diventa percorribile se l'analista è disposto a mescolarsi con il paziente e a fluire e perdersi, seppur transitoriamente, nel campo analitico e che richiede un lungo e faticoso impegno di working through nell'abbandonare un'idea di conoscenza elitaristica e appannaggio di pochi eletti, come probabilmente stava tentando di fare Bion con la tenace ricerca e riflessione di queste pagine e nella densa sofferenza che ne trapela. Per approdare alla condizione più matura dell'essere a pieno titolo soggetto-oggetto nella seduta e per raggiungere quella capacità di risposta personale ai bisogni di chi chiede aiuto che permette di ri-orientare la comprensione sui vissuti specifici di coppia, in atto in un particolare momento. Per passare, in altri termini, dall'applicazione della psicoanalisi all'essere profondamente psicoanalisti.

  E' nell'intendere in questo modo "l'odissea" dell'analista-Bion (altro sottotitolo suggestivo di una cogitation situata oltre metà libro, a pag. 221) che via via ci siamo trovati più simpatetici verso di lui, anche verso i suoi aspetti più ostici e per noi più ostili, formandoci l'impressione che fosse stato Bion stesso a consentire questo nuovo sentimento, avendo lui per primo elaborato una precedente posizione in cui, vivendo l'accoppiamento come "violento" e "pericoloso" "per l'ordine costituito" (pag. 326-330), distanziava e freddava lettore e paziente costruendo una barriera fra sé e l'altro.

  A questo punto del percorso - siamo alla fine degli anni '60 e Bion è prossimo a varcare l'oceano - possono fiorire in Cogitations altre immagini dell'analisi (quelle che desideravamo incontrare e che costituiscono, secondo noi, la sua attualità di analista e pensatore!) e, in una sorta di crescendo, diminuiscono gli spazi riservati all'analista "sfolgorante" o "diabolico" per il paziente (pag. 280-283), lasciando più sullo sfondo quel Bion in-gessato e in bombetta che voleva lavare il cervello senza sporcarsi le mani:

 

"l'analisi … esperienza emotiva unica, riconoscibilmente connessa ad un essere umano reale e non ad un conglomerato di meccanismi psicopatologici" [pag. 283];

  "Il problema dell'analista è … perdere di vista il fatto che la personalità con cui ha a che fare è unica. Questo è così facile a dirsi …. Ma nella realtà di una seduta psicoanalitica è molto facile … dare interepretazioni in termini così vicini ad essere asserzioni delle teorie psicoanalitiche di base da perdere di significato per il paziente" [pag. 285];

  "si ha sempre la tentazione di terminare prematuramente lo stadio di incertezza e dubbio rispetto a quello che il paziente sta dicendo" [pag. 285];

  "non penso che un paziente … accetterà mai un'interpretazione, non importa quanto corretta, a meno di non aver sentito che l'analista è passato attraverso questa crisi emotiva come parte essenziale dell'atto di dare l'interpretazione" [pag. 286];

  "si potrebbe rimpiazzare 'inconscio' con ovvio ma non osservato" [pag. 318] ).

E' proprio sulla scia di queste immagini che, non a caso, Bion arriva, ormai nel nuovo continente, a fare nel 1976 il nome di Ferenczi (pag. 360) e a sostenere due anni dopo (pag. 362) - avevamo dunque ragione a intuirne una somiglianza di cammino, ma digerire e assimilare richiedono i loro tempi! - che il paziente ha bisogno di un analista "essere umano" e non di "rappresentazioni di un essere umano", di "interpretazioni artefatte" perché per appropinquarsi alla verità la "condizione minima necessaria" è la "sincerità".

  Ora Bion, meno condizionato da motivetti da sigle musicali e più fiducioso nei confronti del suo geniale preconscio, aveva appreso a cantare una musica diversa potendo financo mettere nel suo orizzonte di ricerca l' "Io-Tu" di buberiana memoria (pag. 367), come prossima dimensione dell'esplorazione della relazione psicoanalitica.

  Una svolta inconsapevolmente avvertita da lui stesso, allorché l'8 agosto 1978 pone in nota l' "epitaffio per Bion" di Moschus, che Shelley ricorda nella prefazione di Adonais:

 

"Un veleno venne, Bion, alle tue labbra, tu vedesti il veleno. Come ha fatto a scorrere sulle tue labbra senza venire addolcito? E quale mortale fu talmente selvaggio da mescolare il veleno per te o da dartelo mentre parlavi? Era immune al canto" (pag. 365).

Il Bion della "svolta".

  Chiudendo l'ultima pagina di Cogitations, avevamo così superato in gran parte il nostro iniziale sconcerto. Sentivamo di aver noi stessi percorso un cammino e di aver condiviso una lenta ma progressiva svolta. Potevamo guardare con occhio diverso alle costanti di amarezza, di isolamento e di distacco che connotano numerose delle prime cogitation ed essere solidali nel collegarle alle difficoltà dell'uomo Bion, emigrante sin dalla sua più tenera infanzia. Potevamo con ciò recuperare le stesse opere autobiografiche, al di là della loro durezza impietosa e ironica soprattutto verso lui stesso, come possibili modi di suturare antiche ferite, e riavvicinare quei ritratti che in precedenza ci avevano suscitato per molti aspetti tante perplessità e dubbi.

  E' nei Seminari, tuttavia, che si staglia in modo più continuativo in tutta la sua portata il mutamento che Cogitations ha prodotto. Lo vediamo al lavoro - come supervisore - in una veste spesso più amabile, perché sa essere anche immediatamente comprensibile senza necessariamente dover meravigliare con discorsi arditi e bizzarri. Rimane - certamente - in molti punti oscuro e forse un po' astratto, ma le decontestualizzazioni che usa e gli snodi immaginativi che propone sono ora al servizio di convocare il pensiero, lungi dal paralizzarlo o sviarlo. Continua ad attuare le sue mosse preferite - silenzi enigmatici che scuotono gli ascoltatori e rovesciamenti di campo che li allertano sorprendendoli - ma nel suo discorso compaiono una sollecitudine e una generosità emozionata, un'apertura empatica e una capacità di dialogo, che prima non erano altrettanto visibili e palpabili.

  Questo humus di base mutato gli permette una posizione maieutica più autentica che soccorre l'interlocutore, lo convalida e lo riconosce in quanto tale:

 

"… in teoria possiamo leggere quello che ci pare in tutti quei libroni di psicoanalisi; in pratica dobbiamo sentire che cosa il paziente è in grado di sopportare. … bisogna avere sollecitudine per il paziente e tenere conto di come può sentirsi di fronte a un'esperienza che fa tanta paura. … comportarci in modo relativamente convenzionale, così che sia più facile per i pazienti dire tutto ciò che vogliono, dal momento che in ogni caso si trovano in uno stato di tensione." (Bion, Clinical Seminars, Brasilia, One; trad. it. in Seminari clinici, pag. 12).

  "Se lei avesse esercitato la professione di psicoanalista per tutto il tempo in cui l'ho esercitata io, non si preoccuperebbe per delle interpretazioni inadeguate - io non ne ho mai date di nessun altro genere. Questa è vita reale, non la psicoanalisi romanzata. La credenza nello psicoanalista che dà delle interpretazioni corrette e adeguate fa parte della mitologia della psicoanalisi. Di certo non sono indotto a preoccuparmi se lei ha avuto la sensazione che la sua interpretazione fosse inadeguata. Mi sarei abbastanza preoccupato se avesse avuto l'impressione che fosse adeguata!" (Bion, Clinical Seminars, Brasilia, Nine; trad. it. in Seminari clinici, pag. 50).

Non più guru, ma terreno e bonario e meno al limite e provocatorio, ciò che adesso può stupire non sono più i voli pindarici o le acrobazie intellettualizzanti, ma - all'opposto - la frequente semplicità nell'andare direttamente al sodo e al cuore delle cose e l'essere realmente disponibile e paziente verso i propri e altrui balbettii. Gli spiazzamenti a lui idiosincratici appaiono, pertanto, maggiormente modulati e trasformati nei Seminari in invito a far "scalpitare" i pensieri - "asini selvaggi", in onore a una concezione di analisi che ne "preservi la specie". Segno e trasmissione di una sana voglia di maggior naturalezza, che ha sgomberato il campo dai fardelli della teoria e dai problemi di ortodossia, oltre che dalle eccessive aspettative dei suoi discenti nei suoi confronti:

  "Gli psicoanalisti studieranno la mente viva? O l'autorità di Freud verrà usata come un deterrente, come una barriera di ostacolo allo studio delle persone? Il rivoluzionario diventa rispettabile: e così diventa una barriera contro la rivoluzione. L'invasione dell'animale da parte di un germe o di un'anticipazione di uno strumento di pensiero accurato è mal vissuto dai sentimenti di cui si è già in possesso. Questa guerra non è ancora finita." (Bion, 1979, traduzione nostra)

Il Bion che emerge dai Seminari è così, per concludere, come il Bion delle ultime Cogitations, un Bion vigile, in ascolto di sé, con meno moralismi, vezzi di scuola e preconcetti. Un Bion, soprattutto, non onnipotente né onnisciente, che vuole lavorare con le persone che si rivolgono a lui, pronto ad apprendere dal loro contributo. Un Bion con molta disciplina e con molta consapevolezza di non sapere già, che accetta responsabilmente i sentimenti, come quando dice: "Controtransfert è un termine tecnico, ma, come spesso succede, il termine tecnico si usura e si trasforma in una specie di moneta consunta che ha perso il suo valore. … A volte gli analisti dicono: "Quel paziente non mi piace, ma posso fare uso del mio controtransfert." In realtà l'analista non può usare il suo controtransfert. Può forse fare uso del fatto che il suo paziente non gli piace, ma questo non è controtransfert.". Un Bion che dichiara, con serena accettazione dei limiti del vivere e pensare la vasta gamma delle emozioni dell'altro, più in contatto cioè con il terrore di cui parla e meno fobico (Borgogno, 1993) e allarmato nell'affrontarlo, che l'analista ha come strumenti efficaci di lavoro soltanto la sua pancia, il suo cuore, la sua testa.

  Abbandonata l'asepsi dei grandi sistemi di pensiero logico-matematici, verificata la mancanza di strumenti concettuali e linguistici adeguati per descrivere i fatti della mente, meno vincolato dall'ambiente e dai doveri di appartenenza ad una società psicoanalitica (Bion aveva lasciato il suo status di membro della società britannica e rifiutato le proposte di associazione alle società statunitensi), forse aiutato da gruppi di riferimento più emotivi e amichevoli, il lascito e il testamento di Bion può essere sinteticamente racchiuso in queste due citazioni:

  "Quando due personalità si incontrano, si crea una tempesta emotiva. Se fanno abbastanza contatto da essere consapevoli l'un dell'altro o anche abbastanza da esserne inconsapevoli, la congiunzione di questi due individui produce uno stato emotivo e il disturbo che ne risulta non necessariamente ha da essere considerato come un miglioramento rispetto a prima nello stato delle cose. Ma, visto che si sono incontrati e visto che la tempesta emotiva si è verificata, le due parti in gioco in questa tempesta possono decidere di cavarsela alla meno peggio in un brutto affare (making the best of a bad job)." (Bion, 1979; traduzione nostra).

  "… il brutto affare sono io. Non posso essere completamente analizzato - non credo che esista una cosa del genere. L'analisi un giorno o l'altro deve finire; dopo di che debbo fare il meglio che posso con quello che sono." (Bion 1980; trad. it. in Discussioni con W. R. Bion, pag. 123).

Al termine del suo complesso e tormentato percorso di emigrante - nella vita e nel pensiero - ci restano dentro le sue qualità peculiari che ce lo hanno fatto amare e che crediamo lo rendano per tutti noi un importante modello di ispirazione. Le ritrae nitidamente Francesca Bion a cui cediamo la parola:

  "… La sua determinazione a non lasciarsi plasmare nella forma che sarebbe stata congeniale agli altri, il suo coraggio di andare avanti con il suo lavoro quando sentiva di essere sulla strada giusta anche se ancora non poteva portare dimostrazione della giustezza delle sue sensazioni, il suo rifiuto a fare o dire qualunque cosa che sentisse non vera per lui …" (1981, traduzione nostra).

Postfazione.

  Esattamente vent'anni fa, il 17 luglio 1977, Bion - ottantenne - era a Roma, al Pollaiolo, a tenere l'ultimo dei suoi seminari italiani. Esordì dicendo:

  … un'attività come la psicoanalisi è di moda, e la moda cambia. Quindi, se c'è della verità nella psicoanalisi o nella psichiatria, allora sarebbe utile che qualcuno di noi potesse fare qualcosa per rendere esplicita questa verità. Ma ciò significa aprirsi una strada attraverso un'enorme crescita di rovi, di spine, di razionalizzazioni. Quello che non possiamo permetterci di perdere di vista è lo scopo principale - la verità. La nostra capacità mentale deve venire nutrita, ma non c'è nessuno che possa scegliere per noi; dobbiamo essere capaci di rispettare la verità, sia che essa venga espressa dai nostri pazienti, dai nostri colleghi, dai nostri musicisti, pittori o autorità religiose.

Un partecipante gli parla di un suo paziente, che sta morendo di leucemia acuta - la stessa malattia di cui Bion morirà di lì a due anni - e in pratica gli chiede che cosa abbia senso fare, in analisi, con un paziente a prognosi infausta così ravvicinata. Bion gli dice, tra l'altro, così:

  Si dice che questo particolare paziente stia morendo. … noi tutti stiamo morendo, dal momento che in effetti stiamo vivendo. Ma mi interessa se la vita e lo spazio che ci restano sono tali che valga la pena di viverli oppure no. … c'è qualche scintilla lì sulla quale si potrebbe soffiare fino a che diventi una fiamma in modo che la persona possa vivere quella vita che ancora ha, possa usare quel capitale che ha ancora in banca? Quanto capitale vitale ha questa persona? E potrebbe essere aiutato ad usare quel capitale a buon fine?

E conclude il seminario dicendo:

  … l'immagine più vicina che posso dare [di me] … è questa: come una foglia che cade da un albero - non si sa mai su quale lato essa atterrerà. E quando guardo indietro a quello che so della mia vita, veramente non sarei mai stato capace di indovinare che sarei stato qui oggi, e in una tale posizione.

Grazie, dr. Bion …

 

Bibliografia.

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Ringraziamenti.

  Dobbiamo un sincero ringraziamento a Parthenope Bion Talamo, che ha concesso ad uno di noi [S. A. M.] un'intervista libera, finalizzata a raccogliere e confrontare notizie e impressioni su suo padre. Le parti citate dalla registrazione di questa intervista sono riferite come comunicazioni personali di Parthenope Bion Talamo e sono state da Lei riviste prima della pubblicazione del presente lavoro.


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