MARCO MACCIO' e DINA VALLINO

BION, LA CESURA E LA CESTA DI NEWTON

Una delle caratteristiche dei pensatori originali è di proporre non soltanto soluzioni nuove per questioni antiche, ma di scovare questioni importanti e tuttavia anche nuove. Una di queste, che ci ha particolarmente colpito, viene sintetizzata dal personaggio Bion verso la fine di Memoria del futuro in questo modo:

"La maggioranza delle persone sperimentano la morte mentale se vivono abbastanza a lungo. Non è necessario vivere a lungo per avere quell'esperienza. Tutto quello che si deve fare è essere mentalmente vivi " (p.177)

Questa affermazione ha suscitato subito il nostro assenso (in fondo era una cosa di cui seppur vagamente da sempre ci eravamo accorti) ma insieme ha sollevato in noi una serie di domande del tipo: quali sono le caratteristiche dell'essere mentalmente vivi? come si può conseguire la vitalità mentale? come ci si può proteggere dalla sua decadenza?

Si tratta di domande complesse. Fortunatamente Bion non ci lascia soli ma ci propone un suo modo originale per cominciare ad affrontare la questione. Se avendo in mente questa problematica rileggiamo il cap. 13 di Memoria del futuro, che è il capitolo che, dopo il Sogno, dà avvio a riflessioni e discussioni, troviamo che il tema è quello delle caratteristiche costitutive delle menti nobili e splendide, le menti dei geni dell'umanità.

Il cap. 13 è interamente un monologo interiore del personaggio Me stesso. La sua riflessione è appassionata. L'attenzione è rivolta ad alcuni grandi personaggi storici, da poeti come Milton a sovrani come Enrico IV di Francia e condottieri come Nelson. Ma soprattutto affascinano Me stesso la mente stupenda di Pascal e quella di Newton, il genio per eccellenza per gli inglesi. Pascal pur dotato di una "mente splendida" tuttavia non riuscì a proseguire sino in fondo ciò che lo aveva affascinato: l'idea dello spazio infinito. Newton invece sembra interessare Bion poiché finì per perdere per sempre a un certo momento della sua vita la " consistenza mentale". Ma proseguiamo con ordine sugli atteggiamenti di pensiero delle grandi personalità.

La prima caratteristica è il desiderio impellente "della fama, prima e ultima infermità dell'uomo, delle menti nobili". La seconda ha a che fare col non limitarsi nella conoscenza ai fatti, ma con la tendenza ad andare oltre. E con buoni motivi, secondo Me stesso. Egli appare convinto che la nostra mente, quando si applica ai sensi, accede di fatto a una gamma di realtà limitata rispetto alla realtà totale. E' questo che rende il nostro linguaggio ordinario, che deriva dai sensi, inadeguato ad esprimere la complessità e turbolenza delle passioni, emozioni, delle sensazioni preiliminari.. Infatti al di là dei limiti cui i sensi arrivano ci sta l'infrasensoriale e l'ultrasensoriale, ciò che sfugge alla gamma di conoscenza propria degli organismi viventi (la "gamma biologica"). O forse, aggiunge Me stesso, sarebbe meglio dire, dato che parliamo di uomini, che al di là di ciò che è possibile conoscere con i nostri sensi si stende l'infraumano (ad es. le conoscenze sensoriali del sistema simpatico) e l'ultraumano (ad es. le strutture algebriche).

Già dunque l'avvio della riflessione indica che Me stesso non risulta convinto dalla tradizione empiristica inglese: non accetta la tesi di Locke, non accetta che i limiti dei sensi siano anche i limiti della mente. Infatti le strutture algebriche non possono essere colte attraverso i sensi, eppure sono oggetto della mente dei matematici.

E' questa una tesi che sappiamo essere presente nel dibattito filosofico del nostro secolo ed è sostenuta da pensatori di scuole differenti, come Husserl e Popper. Ma Me stesso non si sofferma sulla questione dello statuto degli enti matematici poiché sembra affascinato ad ampliare la riflessione sulla scorta di un passo, del resto celeberrimo, di Pascal.

Pascal fu tra i primi nell'impresa intellettuale di scoprire nello spazio stellato, che ci è offerto dalla nostra stessa capacità sensoriale visiva, l'infinito. Ma non seppe reggere a questa scoperta Così interpreta Me stesso la famosa affermazione di Pascal: "questi spazi infiniti mi terrorizzano". L'infinito è l'informe (questa è una affermazione che ritornerà più volte in Memoria del futuro), qualcosa di terrorizzante che la mente di Pascal, pur splendida, non seppe reggere e da cui preferì fuggire via.

Ciò che sta a cuore a Me stesso si viene dunque precisando. Lo possiamo ora sintetizzare così: caratteristica delle menti geniali è di osare nella conoscenza andare oltre i fatti, sino a pensare l'infinito caotico. Ma un dubbio s'avanza: si tratta di sapere se la mente umana può portare avanti il pensiero dell'infinito informe, senza significato, oppure se essa deve poi comunque inevitabilmente indietreggiare spaventata e limitarsi soltanto alla considerazione dei fatti (il finito). La risposta che si dà Me stesso è che la riflessione sull'infinito informe, senza significato, ha una sua tradizione nella storia della cultura. Quindi che essa è possibile. Ciò non toglie però che essa sia costosa e pericolosa per la mente stessa di chi si è messo nell'impresa. Abbiamo ricavato queste due affermazioni dai casi esemplari su cui Me stesso si arrovella.

Omero e i poeti tragici greci osarono poetare su passioni ed emozioni umane senza significato, senza ordine. Platone orrificto dal rischio di una irruzione del disordine emotivo tra i suoi concittadini volle bandire i poeti dalla costituzione degli stati ben ordinati. E per meglio sconfiggere la loro visione dell'essenza caotica della realtà Platone propose la sua teoria delle forme.

Il secondo esempio, che torna spesso nel libro, è fornito da Newton. Così recita il monologo di Me stesso (abbiamo cambiato l'ordine delle affermazioni):

"Newton rese il suo vertice binoculare... Il vertice di Newton, impiegato sia nell'ambito religioso che in quello scientifico, gli costò la disintegrazione della mente... Egli dice che la consistenza della sua mente non è più tornata. Tutto quello che gli riuscì di fare fu di scrivere l'Ottica ed essere il maestro della zecca, un nano bianco mentale. Egli non fece più eruzione. Povero Newton!"

Riflettiamo su queste affermazioni. Pascal ci permette di capire meglio ciò che viene detto di Newton. Che Newton "rese il proprio vertice binoculare" significa che egli realizzò in pieno ciò cui Pascal si è soltanto avvicinato: ha conseguito una doppia ma simultanea visione delle cose: la capacità di considerare le cose finite, i fatti, e insieme la capacità di spingere lo sguardo e sostenere il pensiero dell'informe caotico, del senza significato. Rimane invece oscuro che cosa ciò possa significare riguardo Newton. In che cosa il principe dei razionalisti del Moderno può essere avvicinato ai grandi tragici greci? E indecifrabile rimane anche la sottolineatura dei pericoli di disgregazione che il vertice binoculare porterebbe alla mente umana. L'esempio di Newton, nè qui nè altrove in Memoria del futuro, risulta sufficientemente chiarito. Vengono fatti dei riferimenti alla vita personale di Newton. Evidentemente Bion si deve essere basato su una biografia di Newton. Ma quale?

E' in Trasformazioni che Bion rivela la sua fonte: si tratta di uno scritto di Keynes, l'economista, del 1942.

Scrive Bion in Trasformazioni (p.218):

"Newton ebbe quella che noi oggi consideriamo una crisi psicotica nella quale, per usare le sue parole, egli perdette "l'antica consistenza della sua mente" e dalla quale emerse, secondo Keynes, "leggermente sciocco" (gaga). Lo scritto di Keynes, che fu letto da suo fratello alle Celebrazioni del Centenario tenute nel luglio del 1946, contiene materiale che ripagherà chi lo studia con le sue acute osservazioni, benché io non possa occuparmene in questa sede."

A questo punto risulta ormai chiaro che ciò che Bion dice in Memoria del futuro su Newton ha alle spalle le "acute osservazioni" di Keynes. Per meglio comprendere Bion abbiamo studiato il breve ma intenso saggio di Keynes, che effettivamente ci ha colpito per la sua profondità.

Keynes fu il primo che poté approfondire lo studio degli scritti inediti di carattere non matematico di Newton. Nel 1696, allorché abbandonò Cambridge per Londra, Newton depositò i suoi quaderni di appunti in una cassa e non se ne occupò più nei successivi trent'anni della sua vita. Si tratta di un materiale enorme che, dapprima venduto dagli eredi, fu poi per circa la metà recuperato, per conto dell'Università di Cambridge, dallo stesso Keynes.

Lo studio di questi inediti porta Keynes a respingere la visione convenzionale di Newton come del più grande razionalista dell'epoca moderna.

Keynes ci presenta la infanzia di Newton come quella di un ragazzino geniale. Felice ragazzino con la madre vedova. Più tardi il giovane Newton, professore di matematica a Cambridge, appare invece nevrotico, isolato, disinteressato alle donne, sospettoso, portato a tenere per sè le proprie scoperte e a rifiutare il dialogo conoscitivo, ma dotato di una straordinaria capacità di concentrazione mentale su un singolo problema, capacità di introspezione, come la chiama Keynes, "di una intensità forse senza confronti nella storia".

Questa sua concentrazione mentale aveva un obiettivo: i fenomeni della natura erano per lui chiavi mistiche imposte da Dio al mondo. Chiavi mistiche si trovano anche nei testi ermetici degli antichi maghi e profeti ispirati dalla rivelazione divina. Così conclude Keynes questa parte cruciale del suo scritto:

"Queste chiavi potevano, secondo lui, essere rintracciate in parte nel grande libro aperto dei cieli e nella costituzione degli elementi (è qui l'origine della falsa impressione ch'egli fosse un filosofo sperimentale); ma in parte anche in alcuni documenti e tradizioni trasmessi dai fratelli, in una catena ininterrotta, fin dall'originaria rivelazione criptica a Babilonia... Pensava che all'iniziato, mediante il pensiero puro e la concentrazione mentale, l'enigma dovesse necessariamente svelarsi. E lesse l'enigma dei cieli. E credette, con le stesse facoltà di intuizione introspettiva, di poter leggere l'enigma della Divinità, l'enigma dei fatti passati e futuri preordinati per volontà divina, l'enigma degli elementi e della loro formazione a partire da una materia prima originaria indifferenziata, l'enigma della salvezza e della immortalità".

La prima novità che sembra emergere dagli inediti è che Newton non fu solo uno sperimentalista, solo un conoscitore e scopritore di fenomeni naturali, anche se lo fu certamente in modo eminente. Ma fu anche un vero e proprio mago, alchimista che sperimentò praticamente per anni e anni nel suo laboratorio ciò che decine di trattati medioevali proponevano al fine di conquistare la pietra filosofale e l'elisir di lunga vita. Parimenti fu uno studioso appassionato dei libri sapienziali dell'umanità, dell'ermetismo, nonché un cultore quasi cabalistico della Bibbia e delle previsioni del libro dell'Apocalisse. E fu un teologo antitrinitario, un ariano, che riuscì a nascondere per decenni quella che anche per gli anglicani era una eresia.

E' dunque conturbante ciò che Keynes propone al lettore: egli si è convinto che la mente di Newton non è quella della tradizione, quella del grande razionalista padre dell'Illuminismo, quella per intenderci che Voltaire ha insegnato all'Europa ad ammirare. Al contrario è scioccante scoprire che per Keynes Newton è l'ultimo dei maghi, l'ultimo di una tradizione di diecimila anni che affonda nei primordi della nostra civiltà. Nella nostra mente, come in quella crediamo di ogni lettore del saggio di Keynes, si affaccia a questo punto una domanda cruciale: ma allora esistono due Newton ben distinti, il matematico razionalista e il mago, oppure esiste un solo Newton, il mago-scienziato, con tutto ciò che questo comporta? Keynes non lo dichiara esplicitamente, ma è quest'ultima la tesi che emerge dal suo scritto come una ipotesi per un lavoro ulteriore.

Keynes prosegue nella sua biografia intellettuale. Da ultimo venne la crisi. Dopo venti anni di isolamento a Cambridge e di continua concentrazione mentale gli amici di Newton cominciarono a temere per la sua salute mentale e cercarono di portarlo a Londra, di fargli cambiare vita. Ma non fecero in tempo. La morte della madre amatissima precedette di tre anni "un terribile collasso nervoso: malinconia, insonnia, mania di persecuzione". La crisi fu superata dopo due anni, ma dopo di allora Newton non produsse più nulla di nuovo. Infine nel 1696 i suoi amici gli trovarono una eccellente sistemazione a Londra come presidente della Zecca. Egli accettò. Scrive Keynes:

"egli ripose nella cassa i libri di magia e non gli fu difficile buttarsi dietro le spalle il secolo XVII ed assumere la veste settecentesca, che è la sua veste tradizionale. Ma, per usare le sue parole, aveva perso "l'antica consistenza della mente".

Questo nostro è solo un pallido riassunto dell'affascinante e ricchissimo scritto di Keynes, che ci ha chiarito le oscurità presenti nel monologo di Me stesso e in alcune altre affermazioni su Newton avanzate in altre parti di Memoria del futuro.

Bion porta al limite ciò che è implicito nelle acute osservazioni di Keynes. Vede in Newton un esempio straordinario dei risultati conoscitivi che la visione binoculare permette di conseguire. Ed anche individua nella sua impresa intelletuale una realizzazione particolare e concreta della visione binoculare stessa, che meglio permette di comprenderla. La visione binoculare di Newton consiste nel considerare i fatti sperimentali come chiavi divine che spetta al suo pensiero puro di aprire, al fine di risolvere l'enigma dell'universo. Qui lo scienziato non è separato dal mago.

Ma Bion è colpito soprattutto dal costo che Newton sembra aver pagato per l'essersi mentalmente mantenuto al livello della visione binoculare, torna più volte sulla oscillazione tra la disintegrazione della mente dapprima e poi il recupero caratterizzato però dalla perdita definitiva della coerenza mentale.

Newton, per poter riprendere il suo equilibrio e ricominciare con un nuovo progetto di vita ha dovuto prendere distanza dal suo passato e dai suoi studi precedenti. Di questo distacco è metafora pratica il chiudere nella cesta i suoi appunti. Newton cambia vita dunque, si allontana dallo stato mentale precedente. La cesura ha anche funzioni protettive. Se però la distanza viene mantenuta più tempo del necessario o indefinitamente ne risulta "un impoverimento della vita mentale".

La visione binoculare cessa quando ritorna ad essere visione doppia, che non si sintetizza. Il razionalista Newton con lo studio dei fatti taglia via l'alchimista; il mago che considerava l'infinito butta il suo passato nella cesta e banalizza l'infinito con "scempiaggini religiose" ( accenno di Bion (p.94) alla vsione razionalistica di Dio da parte dell'ultimo Newton, quella che tanto piacque a Voltaire).

Dall'esempio di Newton emerge questo: cesura come parola chiave per esprimere due livelli del cambiamento. Cesura come taglio (da caedo), pausa, distanza da un lato. Cesura come barriera da penetrare dall'altro. La barriera, l'ostacolo è dato dalle nostre teorie, dai ricordi, dalle idee che creano anche "calcificazioni mentali".

Che cosa deve avvenire perché non si effettui un impoverimento della mente? L'essere mentalmente vivo -secondo il nostro punto di vista- è una qualità della vita mentale, può appartenere a una ideologia, una filosofia, un progetto politico, un pensiero, un'esistenza In contrapposizione all'essere mentalmente morti. L'essere mentalmente vivi: una qualità che richiede che la cesura divenga non solo distanza, ma anche un penetrare la barriera del già saputo (Seminari italiani I p.18 e Cesura p.87), un transitare (p.83), un essere aperto verso altri stati mentali. Scrive Bion in Cesura alla fine (p.99):

"Indagate la cesura; non l'analista, non l'analizzando; non l'inconscio, non il conscio; non la sanità, non l'insanità. Ma la cesura, il legame, la sinapsi, il contro-transfert, l'unione dell'umore transitivo-intransitivo".

Bisogna ritrovare dunque la continuità, la sinapsi, il legame. Come intendere ciò? Pensiamo che si tratti di rivalutare segni impercettibili, informi, onde, quanti, i beta di sensazioni, pensieri ed emozioni che si presentano alla mente senza significato, microscopici, intermittenti, disordinati, sparsi come in un informe caos, vastissimo, esteso, infinito. "Ces espaces infinis m'effraient". L'immagine di uno spazio mentale non euclideo, con idee non organizzate, fa emergere qualcosa che ancora non ha forma, non ha ordine, non ha un prima e un poi. Propriamente qui potrebbe presentarsi il nucleo di germogli di pensieri in statu nascenti, sempre che potessimo, sapessimo, oltrepassare la barriera del già noto.

La cesura va dunque intesa, per noi, nel doppio senso della distanza e della barriera; la cesura è una condizione naturale del cambiamento di stato mentale, appartiene a tutti e non è una difesa come la scissione patologica. La cesura precede sempre il legame che permette di mantenersi vivi mentalmente.


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Marco Macciò e Dina Vallino


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