Università degli Studi di Torino
Facoltà di Psicologia
Anno accademico 2003-2004


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Materiali per il corso a cura degli studenti

La Pet Therapy

a cura di

matteo marchesi


Con il termine Pet Therapy si intende l’azione di supporto in ambito sociale o medico, come integrazione alle terapie tradizionali, svolta in collaborazione con un animale da compagnia.

L'azione dell'animale può essere di presenza, di interazione, di servizio e viene indicata con la sigla AAA/T: Attività e Terapie Assistite con Animali.

Naturalmente l’utilizzo di animali in un contesto di sofferenza è delicato e difficile e impone un conduttore con ottime conoscenze del comportamento degli animali, esperienza e senso critico.

I principali campi di applicazione per la Pet Therapy con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita del paziente, sono quello sociale e medico: nel primo sono comprese scuole, comunità di varia tipologia, case di riposo, carceri. Nel secondo, le strutture medico sanitarie, sia psichiatriche che generiche.

Le AAA - Attività Assistite con Animali, sono, in genere, rivolte a gruppi di persone, per esempio agli ospiti di una casa di riposo. Hanno un indirizzo di tipo ricreativo e ludico. Sono spesso sostenute da volontari e non prevedono una ricerca con raccolta dati.

Le TAA - Terapie Assistite con Animali, possono rivolgersi sia a gruppi di persone che al singolo, come avviene nel settore dell'handicap. Con l’intervento più specificatamente terapeutico, la Pet Therapy rappresenta un facilitatore e si integra alle altre terapie e al lavoro di tutte le figure professionali coinvolte con il paziente.

Va sottolineato che la Pet Therapy non è una terapia sostitutiva, ma la sua funzione è specificatamente di supporto.

 

 

Alcuni esempi di applicazione.

Uno studio di Linda Laun pubblicato nel Gennaio 2003 sull’Home Healthcare Nurse evidenzia l’utilità della Pet Therapy nel trattamento delle demenze: vengono sottolineati gli aspetti cognitivi, di abilità, di memoria, motori e sociali che sono stimolati nei pazienti affetti da demenze nell’interazione con gli animali. Semplici sequenze come dare ordini, premiare un comportamento adeguato e accarezzare attivano numerose competenze e funzioni che specialmente nelle demenze tendono ad inaridirsi.

Anche la comunità di San Patrignano è attenta ai fattori positivi del contatto con gli animali: è presente dal 1962 l’allevamento dell’Aprusa e nella sede di San Vito di Pergine da alcuni anni è attivo un settore di formazione per addestratori di cani sociali a sostegno dell’handicap che collabora con l’Associazione Nazionale Famiglie Fanciulli Adulti Subnormali della sede di Trento.

All’interno della comunità sono dunque allevati i cani che verranno utilizzati nelle suddette terapie.

Gli animali più utilizzati nelle AAA/T sono i cani, grazie alla possibilità di instaurare con loro un rapporto di affetto reciproco duraturo, i costi per il loro mantenimento sono contenuti e vi è la possibilità di addestrarli; rientrano nell’ambito della Pet Therapy anche i cani da accompagnamento, per non vedenti e per non udenti, da valanga, da salvataggio, eccetera.

Ma anche gatti, uccellini da voliera, pesci da acquario, roditori sono tra gli animali utilizzati più o meno frequentemente; tra gli animali più importanti, insieme ai cani, vi sono anche i cavalli, utilizzati nell’ippoterapia e diffusi in particolare nel lavoro con pazienti autistici, affetti da sindrome di Down e da ritardo mentale, dove il prendersi cura e il contatto corporeo sono fattori principali nel rapporto con l’animale.

 

Interazione uomo animale, trasmissibilità delle malattie.

Oltre all’aspetto positivo che sembra provato dell’interazione tra uomo e animale, vi è la possibilità che l’animale nel contatto con un soggetto debole possa essere portatore di malattie oppure possa mordere o graffiare, rendendo la Pet Therapy un’esperienza dannosa.

La ricerca effettuata da Brodie, Biley e Shewring e pubblicata nel 2002 sul Journal of Clinical Nursing ridimensiona il pericolo di trasmissione di malattie tra animale e paziente sia in virtù delle cure veterinarie molto attente e scrupolose, sia per i pochi e semplici accorgimenti volti a contenere eventuali comportamenti aggressivi che potrebbero avere gli animali, come un’attenta scelta dei pazienti e degli animali da far incontrare e la presenza costante di uno o più conduttori.

È da sottolineare lo specifico caso della Delfino Terapia in cui si rendono necessarie all’opposto precauzioni per tutelare la salute dei delfini che potrebbero ammalarsi a causa del contatto con l’uomo.

 

 

Lo sviluppo del bambino tra normalità e patologia.

Tra gli utenti principali delle varie forme di terapia assistita con animali vi sono i bambini, è quindi necessario un quadro seppur non esaustivo di alcune teorie sullo sviluppo psicologico.

Il cucciolo di uomo viene al mondo con la necessità di appoggiarsi ad un essere della stessa specie già sviluppato ed in grado di proteggerlo dai pericoli fornendo al contempo calore, affetto e contenimento.

Una prova del bisogno del contatto affettivo sono i casi di ospitalismo nei quali una forte deprivazione di affetto produce una sindrome di abbandono.

Una ricerca di Renee Spitz condotta su due gruppi di bambini dimostra quanto la carenza di affetto sia dannosa nei bambini: un primo gruppo era costituito da figli di madri recluse in un penitenziario; ogni madre si occupava quotidianamente del suo bambino aiutata da un’infermiera. Il secondo gruppo invece era costituito da bambini affidati a brefotrofi che ricevevano cure dietetico-igieniche senza errori, ma che mancavano di qualunque contatto umano caloroso.

La reazione di ospitalismo si osserva nella seconda popolazione, mentre appare nella prima soltanto dopo una separazione dalla madre. Il quadro di questa reazione ha tipicamente quattro fasi: il piagnucolamento, le grida acute, la perdita di peso e l’arresto dello sviluppo, il ritiro e il rifiuto del contatto che può sfociare nella sintomatologia di una depressione anaclitica. In tali condizioni si osservano bambini piccoli prostrati, abbattuti, dallo sguardo spento, isolati, apparentemente indifferenti a ciò che li circonda, ritirati. Il cattivo stato di salute che si accompagna a questo quadro può portare fino alla morte.

L’osservazione del comportamento del bambino ha portato ad ipotizzare che sia presente fin dalla nascita un vero e proprio meccanismo innato di sopravvivenza: l’attaccamento. In quest’ottica il ruolo dei genitori è quello di

"fornire una base sicura da cui un bambino possa partire per affacciarsi sul mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato". (Bowlby J., 1989)

Lo sviluppo del bambino passa quindi attraverso fattori ambientali e sociali e proprio in questi ambiti rientrano i meccanismi di adattamento, competenze carenti nei bambini diagnosticati affetti da Ritardo Mentale secondo i criteri del DSM IV.

In base alla teoria di Jean Piaget l’adattamento all’ambiente avviene attraverso meccanismi di assimilazione, cioè di acquisizione di schemi mentali nuovi determinati dall’incorporazione di elementi dell’ambiente nella struttura dell’individuo, di accomodamento, ossia la modificazione degli schemi precedenti in funzione delle modificazioni dell’ambiente, e di meccanismi di equilibrazione, che costituiscono la regolazione tra assimilazione ed accomodamento.

L’equilibrazione determina la stabilità del sistema nell’evoluzione del bambino attraverso fasi generalmente stabili che sono definite stadi.

Secondo la cornice di questa teoria, i bambini diagnosticati come affetti da Ritardo Mentale Lieve non giungono allo stadio delle operazioni formali e ciò significa che non avranno la capacità di compiere operazioni su operazioni in assenza di supporti concreti, basandosi solo su ipotesi logiche; il ragionamento limitato dal particolare al particolare spiega il comportamento di quei bambini che non sono in grado di comprendere le regole sociali e le norme di comportamento perché non sono in grado di compiere astrazioni e generalizzazioni.

I rapporti con gli altri possono diventare difficili e spesso anche in famiglia vi sono attriti e un clima non sereno. Per avvicinare le complesse dinamiche tra i genitori e un figlio disabile possiamo avvalerci del punto di vista della psicologia sistemica che fornisce un’interessante teoria sulle dinamiche ambientali e familiari che si delineano attorno al bambino; considerando la famiglia come un tutto nel quale le singole parti si influenzano a vicenda, l’orientamento sistemico interviene col fine di consentire una riorganizzazione dei rapporti tra gli individui. Nell’ottica dell’handicap una rielaborazione dei ruoli e un disvelamento di automatismi mai esplicitati porta ad un migliore riconoscimento del bambino e delle sue difficoltà, oltre a sollevare un poco i genitori da sensi di colpa, rabbia e frustrazione.

 

 

 

Il Ritardo Mentale.

Tra le entità sindromiche più comuni trattate dalla Pet Therapy vi è il ritardo mentale per il quale i fattori eziologici possono essere biologici o psicosociali o una combinazione di entrambi.

In circa il 30-40% dei casi non può però essere individuata una eziologia chiara, tra i principali fattori predisponenti vi sono:

- l’ereditarietà,

- le alterazioni precoci dello sviluppo embrionale,

- le influenze ambientali,

- i disturbi mentali,

- i problemi durante la gravidanza e nel periodo perinatale,

- le condizioni mediche generali acquisite durante l’infanzia o la fanciullezza.

Secondo i criteri del DSM IV TR, per poter formulare la diagnosi di ritardo mentale è necessario un funzionamento intellettivo al di sotto della media, limitazioni nelle capacità adattive ed un’insorgenza prima dei 18 anni di età.

La diagnosi di deficit intellettivo avviene sulla base di test di intelligenza che nel caso dei bambini sono la Wisc-R, il Kaufman, la Stanford Binet per i bambini.

Il ritardo mentale è classificato in:

- lieve, QI compreso tra 50 a 70 circa

- moderato, QI compreso tra 35 a 50 circa

- grave, QI compreso tra 20 a 35 circa

- gravissimo, QI al di sotto di 20

- gravità non specificata, quando si sospetta vi sia un ritardo mentale, ma non è possibile misurare l’intelligenza del soggetto attraverso i test standardizzati.

Circa l’85% dei bambini ai quali è diagnosticato un Ritardo Mentale rientrano nella categoria del Ritardo Lieve; questi sono i bambini definiti "educabili", hanno una compromissione minima delle aree sensomotorie e spesso non sono distinguibili dai bambini senza Ritardo Mentale fino a un’età più avanzata.

Prima dei 20 anni possono acquisire capacità scolastiche corrispondenti all’incirca alle competenze della quinta elementare.

Ecco come Stefano, un ragazzo affetto da sindrome di Down, descrive una tipica sensazione:

"A volte mi blocco. Non so perché, ma a volte mi blocco. Non me ne accorgo quando succede, lo so perché me lo hanno fatto notare gli altri. Quando sono davanti a più persone che mi fanno tante domande a volte io entro in trance e non riesco più a rispondere. Le mie reazioni sono confuse e non riesco a dare risposte sicure su alcune cose che mi vengono chieste. Quando questo blocco succede, io vorrei rispondere e vorrei dare tutte le informazioni possibili e necessarie, ma è come se non sapessi da dove cominciare. Questo difetto lo vorrei correggere, perché secondo me è causato da mancanze di risposte". (Conforti S., 2000)

Circa il 10% dei bambini diagnosticati come affetti da Ritardo Mentale rientrano nella categoria del Ritardo Moderato e ad essi ci si riferiva in ambito pedagogico con la categoria educazionale di bambini "addestrabili". Questa definizione è erronea perché parte dal presupposto che questi bambini non possano beneficiare di programmi educazionali.

La maggior parte dei bambini che rientrano in questa categoria acquisiscono competenze comunicative durante la prima fanciullezza e traggono giovamento da un addestramento professionale. Con un minimo di sostegno e di addestramento sociale nella maggior parte dei casi sono in grado di affrontare compiti lavorativi semplici, ma difficilmente progrediscono oltre il livello della seconda elementare nelle materie scolastiche. Hanno grandi difficoltà nel riconoscere e comprendere le convenzioni sociali e pertanto possono sperimentare gravi difficoltà relazionali.

"Se ti chiedono "come stai?" devi rispondere e chiederlo anche tu, anche se a me non me ne importa molto. Se però te lo chiede uno mal vestito oppure che non conosci, non devi rispondere. Se però non lo conosci, ma è un amico del papà o della mamma, allora sì.
Sono regole difficili e molto strane. Più che regole sono vere e proprie scocciature. Ma questo l’ho già detto. Invece non ho ancora detto che in qualunque modo cerco di rispettarle sbaglio.
Poi, naturalmente, non devi essere "prepotente" e devi sforzarti di pensare che cosa possa far piacere agli altri. Io non ci riesco mai e penso che se una cosa piace a me, allora piace anche agli altri; penso anche che se io vedo o sento una cosa, allora la vedono e la sentono uguale anche gli altri. Ma mia mamma ha detto che non è affatto così".
(Imbimbo et al., 2002)

Sono diagnosticati come affetti da Ritardo Mentale Grave circa il 3-4% sul totale dei diagnosticati come affetti da Ritardo Mentale. Questi bambini acquisiscono durante la fanciullezza un livello minimo di capacità linguistica comunicativa o non lo acquisiscono affatto.

Possono essere addestrati alle attività elementari del prendersi cura della propria persona e possono imparare a riconoscere a vista alcune parole per le necessità più elementari.

Nell’età adulta possono svolgere compiti semplici in ambienti altamente protetti e vivere in comunità alloggio o in famiglia, a meno che altri handicap associati non richiedano assistenza specializzata.

Sono diagnosticati come affetti da Ritardo Mentale Gravissimo circa l’1-2% della popolazione affetta da Ritardo Mentale.

Spesso è possibile individuare una causa neurologica che spieghi il deficit; questi bambini mostrano già dalla prima infanzia una compromissione del funzionamento sensomotorio. Uno sviluppo ottimale può verificarsi in un ambiente altamente protetto in cui interventi specializzati e costanti nel tempo accompagnino il bambino. Con un addestramento si possono in alcuni casi raggiungere minimi risultati nella cura della persona e nello svolgimento di compiti molto semplici.

Dalla classificazione francese del 1988 (Mises et al., 1988) è utile compiere una ulteriore distinzione tra ritardo armonico, omogeneo, caratterizzato dalla bidimensionalità dell’esperienza, da una povertà del registro simbolico, da una scarsa organizzazione e integrazione dei dati relativi all’esperienza nel tempo e nello spazio, per cui quasi tutto è ridotto ad una "dimensione concreta e focalizzata"; e ritardo disarmonico in cui, oltre al deficit cognitivo si trova connessa una costellazione di sintomi quali turbe strumentali, disturbi affettivo-relazionali che condizionano in vario grado le capacità adattative del soggetto.

Tra i comportamenti adattativi di un individuo, quello motorio è uno dei primi ad essere implicato nel rapporto con l’ambiente esterno. La scuola di Ginevra, con Piaget e Wallon, ha chiaramente indicato l’importanza di un comportamento motorio adeguato nella costruzione di un modello di rappresentazione e di adattamento al reale.

I meccanismi dell’assimilazione e dell’accomodamento poggiano in un primo momento sui riflessi innati e poi sulle reazioni circolari (primarie, secondarie, terziarie) che vanno a costituire schemi motori sempre più complessi, sofisticati e organizzati, divengono schemi motori d’azione, che rappresentano i primi contenitori psichici del reale (Gibello, 1987).

Il disturbo cognitivo può tradursi in un’incompetenza precoce nel processamento e nella messa in atto di tali strategie neuromotorie e anche complicarsi nella serie ininterrotta di distorsioni indotte dal disturbo di base; ne deriva un’alterazione più o meno grave dei contenitori del pensiero e una conseguente limitazione del soggetto a riconoscere un senso pieno al mondo degli oggetti e delle relazioni. Russo scrive: quando…

"spazi e tempi sono eccessivamente legati ai significati primitivi di acquisizione e sperimentazione (spazi corporei, spazi di conquista, spazi di conoscenza, spazi di relazione) [allora] le modalità di percezione sono talmente impregnate dal significato vissuto, che risulta deficitario, parziale e distorto il rapporto con la globalità dello spazio". (Russo, 1986)

La coscienza di sé nei soggetti con deficit cognitivo sembra evolvere in una specie di nebbia dalla quale la routine della vita quotidiana non consente di evadere e questo proprio a causa della mancata acquisizione di quella che è la presenza corporea del soggetto, ossia l’esserci, l’occupare uno spazio che delimita se stesso dall’esterno e consente una propria individualità interiore.

L’acquisizione di un’adeguata imagine corporea è fondamentale per la possibilità di proporsi in rapporto al tempo, di stabilire un prima, un dopo nell’esperienza e nella relazione.

Altri disturbi si associano spesso al Ritardo Mentale che viene codificato sull’Asse II del DSM IV TR e questi trovano collocazione sull’Asse I (Disturbi Clinici).

La diagnosi multiassiale si completa con l’Asse III: condizioni mediche generali, con l’Asse IV: problemi psicosociali ed ambientali e l’Asse V: valutazione globale del funzionamento.

Riabilitazione equestre e ippoterapia.

impedire che uno svantaggio si trasformi in un handicap

Gli ambiti di intervento della riabilitazione equestre sono due: il campo medico, nel quale gli obiettivi di riabilitazione motoria sono preminenti e quello psichico, dove il lavoro sulle abilità motorie si associa a un intervento sul disagio mentale e sulle competenze del paziente ed è proprio quest’ambito che ci interessa come psicologi.

I pazienti sono generalmente bambini ai quali sono diagnosticati disturbi che nella classificazione del DSM IV TR rientrano nelle categorie di ritardo mentale, disturbi dell’apprendimento, disturbi delle capacità motorie, disturbi della comunicazione, disturbi pervasivi dello sviluppo, disturbi da deficit di attenzione e da comportamento dirompente e disturbi della evacuazione.

 

Pazienti piccoli.

Giulia è una bambina di otto anni e non parla, ma risponde alla richiesta di una stretta di mano nell’incontrarmi la prima volta.

È strabica: un occhio fissa il soffitto, l'altro si guarda lentamente intorno e la testa ne segue i movimenti.

Giulia tiene la lingua tra i denti e una volta messa sul cavallo abbozza un sorriso, altrimenti non riusciremmo a capire se in qualche modo ha anche solo una blanda consapevolezza di dove si trova.

Il lavoro che possiamo fare con lei è minimo e consiste nel mostrare l’intenzionalità di far camminare il cavallo quando lo facciamo fermare.

Giulia in sella cerca la mamma con la quale è in atto un rapporto di reciproca e fortissima dipendenza, tanto che la donna non è in grado di sfruttare la mezz’ora di ippoterapia della figlia come un momento di svago personale: controlla senza farsi vedere, ma Giulia in qualche modo percepisce la presenza della mamma e non riesce a concentrarsi sulla seduta di ippoterapia.

Il rapporto simbiotico tra madre e figlia appare molto dannoso, anche perché nelle interazioni si individuano chiaramente forme di aggressività che la madre rivolge alla figlia e che non contribuiscono a creare un ambiente facilitante per Giulia.

La seduta di ippoterapia con Giulia termina quando la bambina si fa pipì addosso, interpretiamo questo gesto come in parte intenzionale e come richiesta di accudimento.

Laura è una ragazzina che frequenta la seconda elementare, non è in grado si sostenersi autonomamente né di parlare ma le sue competenze cognitive sono buone: nel suo caso ad una fisioterapia tradizionale si associa l’ippoterapia una volta la settimana per venti minuti. Con Laura il lavoro riguarda la comunicazione attraverso l’uso del corpo, i muscoli sono ipotrofici, il controllo motorio è molto scarso; seguita da un’istruttrice che cavalca con lei e dall’ippoterapeuta che guida il cavallo da terra, Laura sperimenta il controllo dei movimenti dell’animale, decide la direzione da prendere alzando un braccio, fa fermare il cavallo alzandoli entrambi e lo fa ripartire sollevando i piedi.

Dimostra intenzionalità dei movimenti che seppur difficoltosi sono riconoscibili, questo oltre alla scrittura al computer è un modo attraverso il quale Laura comunica.

I miglioramenti ottenuti grazie alla riabilitazione equestre non sono facilmente quantificabili dal momento che l’intervento è associato ad una fisioterapia tradizionale, ma è molto visibile quanto Laura si diverta e quanto l’umore ne tragga beneficio.

L’equitazione è generalmente considerata un’attività elitaria pertanto possiede una valenza particolare per quei ragazzini che sono considerati dei diversi: Laura frequenta una scuola elementare nelle vicinanze del maneggio e una mattina dell’anno passato è stata accompagnata a scuola a cavallo, ammirata dalla sua classe e dai suoi compagni con un indubbio effetto sulla sua autostima.

Con Stefano, che porta le conseguenze di un grave trauma alla nascita, il lavoro che viene effettuato in sella è di contenere l’affettività; Stefano ha difficoltà motorie a cui si associa un serio deficit psichico.

Appena salito a cavallo si sdraia sul dorso dell’animale abbracciandolo e baciandone il collo; sembra abbia necessità del contatto fisico e le emozioni lo assalgono prepotentemente. Osservandolo si può avere l’impressione che l’affettività dilaghi e lo travolga, portandolo ad un’agitazione sensoriale e motoria che lo spinge a volgersi verso la coda del cavallo per ricercare il contatto, dimenticando ogni posizione di sicurezza in sella.

Sembra che Stefano ricerchi una forma di contatto simbiotico con l’animale e quando l’ippoterapeuta riconduce il delirio di Stefano verso la realtà, la frustrazione si manifesta attraverso l’aggressività. Stefano si oppone ai tentativi di ricondurlo alla posizione eretta e usa i pizzicotti per allontanare l’ippoterapeuta.

Con lui gli obiettivi sono quelli di instaurare una comunicazione attraverso canali meglio strutturati.

Serena è invece una bambina affetta da sindrome di down che viene in terapia di mattina accompagnata dalle maestre; appena entrata in campo si rifiuta di salire a cavallo, non è lo stesso animale dell’altra volta e alla bambina non piace. Oppone resistenza e con il suo atteggiamento si pone al centro dell’attenzione; metà lezione ci vede intenti nel cercare di convincerla a salire a cavallo, fino a quando interviene l’istruttrice di equitazione. I modi decisi convincono Serena a salire, ma ben presto emerge l’aggressività verbale e per punizione la sua lezione viene fatta terminare.

In Serena si riconoscono atteggiamenti adulti stereotipati sia motori (dondolii, rovesciamento degli occhi all’indietro, atteggiamento di preghiera) che verbali, nei quali si rifugia nei momenti di ansia. È frequente il sentirla lamentare e imprecare e subito dopo chiedere scusa per evitare la punizione.

Gli obiettivi della terapia con Serena sono di farle acquisire fiducia in se stessa e negli altri, sostenere un più efficace controllo delle emozioni e dell’aggressività: i risultati sono minimi a causa dell’atteggiamento oppositivo che trova riscontro nelle maestre che tollerano i capricci della bambina rinforzando così questi meccanismi.

Gabriele è un ragazzino che frequenta la seconda elementare, possiede capacità linguistiche che lo collocano al di sopra della media dei coetanei e non presenta deficit sensomotori.

Ha grandi difficoltà nel gestire le emozioni, quando è agitato utilizza il linguaggio per scaricare l’ansia e si perde in un fiume di parole ininterrotto all’interno del quale non vi è spazio per la relazione con l’altro. L’impressione con Gabriele è di trovarsi di fronte ad un bambino molto intelligente, ma che non si dà il permesso di manifestare le proprie emozioni: durante una seduta di ippoterapia perde il cappello e compie un movimento in sella che lo porta a perdere la posizione di sicurezza; l’ippoterapeuta si china per raccogliere il cappello ed il cavallo si spaventa e fa cadere Gabriele.

Il bambino è comprensibilmente spaventato e ci racconta la volta successiva che era così arrabbiato da voler spaccare un vetro.

Decidiamo di utilizzare questo pretesto per consentire al bambino di elaborare le emozioni e lo portiamo vicino al cavallo che lo ha disarcionato.

Gabriele che pur è alterato non riesce a esprimere la sua rabbia e chiede scusa al cavallo attuando un meccanismo in cui si punisce per la spinta aggressiva.

Le emozioni emergono attraverso una loquacità strabordante che a tratti sembra un monologo e che richiede interventi decisi per fermarne il dilagare.

Gabriele riesce finalmente ad urlare contro il cavallo dicendogli che è molto arrabbiato dopo avergli spiegato che l’esprimersi è positivo e non avrà conseguenze.

Un’altra caratteristica di Gabriele è la fragilità di alcuni suoi aspetti narcisistici per cui durante il gioco del passarsi una palla seduto sul cavallo dice ripetutamente che vuole perdere, ponendosi di fatto nella posizione di finto down descritta da Watzlawick nella "pragmatica della comunicazione umana" in cui qualunque risultato del gioco lo vedrà comunque vincente.

 

 

Ippoterapia. Aspetti teorici.

Per i ragazzi che associano un disagio mentale ad un handicap fisico, l’ippoterapia riveste anche un valore pedagogico stimolato dalle attività di cura del cavallo; bisogna comunque ricordare che l’ippoterapia ha una funzione di supporto e non si sostituisce agli altri trattamenti. Si potranno osservare notevoli miglioramenti nelle prime lezioni, con bambini entusiasti e stimolati dalla novità, con modificazioni successive lente o spesso impercettibili.

Il movimento rappresenta una delle componenti principali per prendere confidenza con il proprio corpo e farlo esprimere. In particolare, la terapia per mezzo del cavallo trova una sua valida applicazione in quelle psicopatologie che comportano disturbi a questo riguardo. I disturbi di personalità, le psicosi infantili, il ritardo mentale, i disturbi dello sviluppo, la sindrome di Down e i quadri misti sono le patologie che riescono a trarre più giovamento dal lavoro con il cavallo.

Il contatto con l’animale rappresenta un momento di shock sensoriale anche solo per il fatto di trovarsi di fronte ad un essere così grande ed insolito che non appartiene all’esperienza della vita quotidiana. Nel cavalcare il paziente subisce un dondolio ritmico di circa 70 cicli al minuto; esso ha effetti calmanti e rilassanti per la somiglianza con il battito cardiaco e agisce come anti psicotico, anti depressivo e regolatore dell’umore. Si crea inoltre un adattamento nei movimenti del paziente che dovrà adeguarsi al movimento dell’animale. I pazienti più gravi avranno la possibilità di sperimentare l’animale come altro da sé nel momento in cui il cavallo cambierà direzione, velocità, di andatura.

Gradualmente il paziente potrà acquisire la consapevolezza della possibilità di agire, reagire, dare ordini e nella continua stimolazione sarà facilitato nell’acquisire maggiori informazioni sullo schema corporeo e sul cosa sia l’essere in relazione.

Nell’ambito del rapporto tra paziente, cavallo e ippoterapeuta si dà al bambino la possibilità di sperimentare una forma di comunicazione diretta con l’animale che risponde in maniera coerente con la stimolazione.

Il disabile ha la consapevolezza di poter intervenire e il fatto che il cavallo sia così imponente e abbia un significato simbolico così forte ha un’influenza notevole sull’autostima e sulla consapevolezza di sé.

Il cavallo ha per molti pazienti la valenza un oggetto transizionale. Nella teorizzazione di D.W. Winnicott l’oggetto transizionale rappresenta il "primo possesso non-me" del bambino che avviene nello sviluppo dei bambini normali tra i 4 e i 12 mesi. L’oggetto transizionale si inserisce nel più ampio "fenomeno transizionale" che consente al bambino di differenziarsi rappresentando una tappa intermedia tra il mondo protetto del rapporto madre-bambino e il mondo esterno.

Il cavallo può essere investito di questo ruolo nel momento in cui favorisce la presa di coscienza nel bambino di sé come oggetto separato ed indipendente da qualche cosa di vivo che è altro da sé, ossia l’animale.

L’ippoterapeuta ha il compito di facilitare questa acquisizione ad esempio lasciando che il cavallo disobbedisca ad un ordine del paziente mostrando quindi di contrapporsi alla volontà del disabile.

Una seconda funzione del cavallo è quella di essere un "mediatore simbolico", ossia può rappresentare per il paziente la possibilità di un nuovo approccio nel rapporto con l’altro in una situazione relazionale di accoglienza. Gli altri esseri umani possono essere vissuti come frustranti, incomprensibili, pericolosi. Nel rapporto con il cavallo invece il bambino si sente accettato per quello che è, non viene rifiutato per il suo handicap, ha la possibilità di sentirsi utile e trova nel cavallo una fonte di affetto e di tenerezza.

Il cavalcare può essere fonte di autostima, come abbiamo visto parlando di Laura, anche perché molto spesso gli stessi familiari del bambino non hanno avuto nella loro vita occasione di andare a cavallo.

L’ippoterapeuta ha il compito di facilitatore nel rapporto con l’animale, contenendo l’emotività del paziente e riportandolo il più possibile a contatto con la realtà fino a rivestire il ruolo di una figura di riferimento adulta con la quale il bambino ha l’occasione di relazionarsi.

È particolarmente importante il suo ruolo nel caso in cui il cavallo rappresenti un elemento ansiogeno a causa del suo aspetto, della sua altezza da terra o dei suoi movimenti e dovrà quindi garantire aiuto, contenimento, garanzia di sicurezza, ad esempio attraverso il contatto fisico con il bambino che costituisce la funzione di handling.

La funzione complessiva di holding da parte dell’ippoterapeuta appare sia nei contatti fisici ma soprattutto nel clima affettivo che contribuisce a creare uno spazio protetto all’interno del quale il bambino può sentirsi al sicuro.

L’object presenting corrisponde al valore del cavallo come mediatore simbolico fornendo separazione, autonomia e anche come fattore di unione con il terapeuta.

Con i bambini che presentano una sintomatologia da Disturbo dell’Attenzione il rapporto con il cavallo facilita una regolazione interna.

Il dizionario dei simboli definisce così il cavallo:

"Il cavallo non è un animale come gli altri; è la cavalcatura, il veicolo. Il suo destino è dunque inseparabile da quello dell’uomo e fra i due si instaura una dialettica particolare fonte di pace e di conflitto, che è poi la dialettica stessa dello psichismo e del mentale… se cavallo e cavaliere sono in conflitto, la corsa intrapresa può condurre alla follia e alla morte; se fra loro vi è accordo, la corsa diventa trionfale".

Il lavoro con il cavallo presuppone la possibilità di creare ampi spazi per il gioco e Winnicott afferma che,

"il gioco è universale e appartiene alla sanità… il gioco è un’esperienza sempre creativa; è un’esperienza che si svolge nel continuum spazio-temporale, una forma fondamentale di vita".

 

 

La delfino terapia.

Divo Augusto principe Lucrinum lacum invectus pauperis cuiusdam puerum ex Baiano Puteolos in ludum litterarium itantem, cum meridiano immorans appellatum eum simonis nomine saepius fragmentis panis, quem ob iter ferebat, adlexisset, miro amore dilexit. Pigeret referre, ni res Maecenatis et Fabiani et Flavii Alfii multorumque esset litteris mandata. Quocumque diei tempore inclamatus a puero, quamvis occultus atque abditus, ex imo advolabat pastusque e manu praebebat ascensuro dorsum, pinnae aculeos velut vagina condens, receptumque Puteolos per magnum aequor in ludum ferebat simili modo revehens pluribus annis, donec morbo extincto puero subinde ad consuetum locum ventitans tristis et maerenti similis ipse quoque, quod nemo dubitaret, desiderio expiravit.

Plinio il vecchio, Naturalis historia, IX 25

 

 

Anche la delfino-terapia ha dato risultati eccezionali soprattutto nel caso di pazienti psichiatrici, autistici e depressi, ma i costi proibitivi delle strutture e del mantenimento degli animali impediscono uno sfruttamento su larga scala dei benefici di questa forma di terapia.

Il contatto con i delfini servirebbe anche a stimolare la motivazione, l'aumento di fiducia, la capacità motoria e comunicativa, la capacità di memorizzare e di elaborare concetti.

David Nathanson, presso l’Ocean World di Fort Lauderdale in Florida, applicò le possibilità di comunicazione con i delfini per stimolare bambini down; impiegando delle tavole colorate portate dai delfini, i bambini erano tenuti a dire e a ricordare le parole collegate alle figure prima di passare alla fase successiva del gioco, del contatto e del farsi portare in groppa. Il confronto tra questo esperimento didattico con quello dell’insegnamento in classe mostrò che i bambini apprendevano più velocemente e memorizzavano le informazioni con maggiore facilità nell’interazione con i delfini.

La delfino terapia realizza la sua efficacia anche grazie all’elemento in cui viene effettuata e che fornisce un feedback cinestesico e di riduzione dello stress.

Tra i siti in cui è praticata la delfino terapia vi è il Dolphin’s Plus di Key Largo in Florida in cui dal 1990 la dottoressa Hoagland dell’Island Dolphins Care pratica la terapia assistita con i delfini. Sono disponibili diversi tipi di attività per i bambini e le loro famiglie.

Nell’arco di cinque giorni i bambini affrontano cinque sessioni in acqua della durata di 20-30 minuti ciascuna, l’esperienza sul campo ha dimostrato che sessioni più lunghe possono avere effetti controproducenti.

Ciascun bambino in rapporto alle sue abilità interagisce con un delfino e il suo istruttore, in acqua oppure da una piattaforma.

Il rapporto con il delfino stimola l’attenzione, la spinta a intraprendere nuovi comportamenti, all’ascolto e fiducia in se stessi e negli altri, inoltre la terapia effettuata in stretto contatto con la famiglia migliora i rapporti tra il bambino e i genitori.

I bambini sono seguiti in quattro sessioni in classe della durata di 30 minuti in cui vengono applicati piani individuali volti a consolidare le abilità apprese nel rapporto con i delfini.

Purtroppo in Italia la delfino terapia era praticata soltanto presso il Delfinario di Rimini dall’equipe della dottoressa Giuseppini, ma questa esperienza è stata interrotta nel 2002. Anche il progetto finanziato dal Ministero dell’Ambiente per uno studio sull’efficacia del contatto con malati autistici presso il Parco Nazionale delle Cinque Terre sembra che sia in stallo; questo progetto porrebbe l’Italia all’avanguardia nel mondo dal momento che soltanto il Dolphin Reef di Eilat in Israele consente immersioni con delfini in mare aperto.

 

 

L’interazione con i delfini.

Il cervello del delfino è tra i più simili a quello dell’uomo per peso, sviluppo della corteccia e connessioni tra i due emisferi. L’intelligenza di questi mammiferi è stata di recente studiata con criteri rigorosamente scientifici (Herman). E’ stato dimostrato che sono capaci di riconoscere fino a 50 suoni o simboli corrispondenti ad altrettante parole, e che sono in grado anche di comprendere la struttura della frase agendo in modo diverso a seconda dell’ordine in cui queste "parole" vengono loro proposte. I delfini sono dotati anche della funzione dell’ecolocazione, che funziona più o meno come l’ecoscandaglio delle barche, che consente loro di riconoscere i fondali e le prede anche in acque limpide. Gli ultrasuoni, che noi possiamo percepire alle più basse frequenze, vanno da 20.000 a 150.000 Hertz. In diverse occasioni si è verificato che le donne in stato di gravidanza sembrano attrarre particolarmente l’attenzione dei delfini, che esaminano ripetutamente il loro addome con gli ultrasuoni. Per quanto concerne la vita sociale dei delfini essa è improntata ad una grande solidarietà che a volte viene trasferita anche all’uomo. Quando un delfino è ammalato o ferito non viene abbandonato. Al contrario, gli altri lo guidano e lo sostengono in modo che possa seguire il branco e salire in superficie per respirare.

Numerose notizie riportano casi di salvataggi in cui non solo i delfini sono in grado di individuare e mantenere in superficie persone in difficoltà ma, diversamente da quello che farebbero con compagni della loro stessa specie, spingono questi esseri umani verso riva, come se capissero il loro bisogno di raggiungere la terra ferma. Oltre a questo soccorso "fisico", i delfini influenzano in maniera positiva anche la psiche umana. Coloro che hanno nuotato con i delfini hanno avuto quasi sempre l’impressione che essi interagissero con le persone immerse come se comprendessero il loro umore: timidi e distanti con chi ha timore, giocosi con chi è eccitato, carezzevoli con chi è rilassato. E’ probabile che in questa capacità di contatto sulla giusta "lunghezza d’onda", per noi molto gratificante, essi siano guidati da una notevole capacità di leggere il linguaggio corporeo e di percepire, attraverso l’acqua le produzioni ormonali che accompagnano i diversi stati emotivi. Una conferma di queste impressioni è venuta da questionari sui vissuti emotivi dei partecipanti ai programmi di nuoto con i delfini, inviati da ARION nel ‘93 a diversi centri che effettuano questi programmi in varie parti del mondo (Israele, Stati Uniti, Australia). Le risposte ai questionari hanno dimostrato che la quasi totalità (109 su 110) delle persone che si sono incontrate con i delfini hanno trovato l’esperienza positiva se non addirittura entusiasmante; il 76,4% ha riferito di provare sentimenti di benessere anche dopo l’immersione; il 49% ha dichiarato di essersi sentiti in comunicazione o in contatto (non solo fisico) con i delfini ("mi è sembrato che i delfini mi capissero"; "ho sentito di poter comunicare con questi animali: questo ha destato in me un senso di comunione"); il 39% ha dichiarato di avere scoperto qualcosa di nuovo in se stessi nel corso dell’esperienza ("I delfini mi hanno portato la calma interiore e il desiderio di ascoltare gli altri, uomini e animali"; "ho imparato ad essere più altruista"; "ci si sente più aperti").
Sembra che nuotare con i delfini abbia quindi effetti positivi sulla psiche umana. Lo confermano esami elettroencefalografici effettuati negli USA su persone partecipanti a programmi di nuoto, prima e dopo l’immersione.

Prima dell’interazione:

● prevalenza di onde beta al 92%

Dopo l’interazione:

● prevalenza di onde alfa al 81%

● prevalenza di onde theta al 10%

● prevalenza di onde beta al 9%

● sincronizzazione emisferica al 75%

 

In Gran Bretagna Horace Dobbs ha condotto esperienze in mare aperto con persone sofferenti di gravi forme depressive, ottenendo in alcuni casi risultati insperati. Bill Bowell, un uomo ultracinquantenne, da oltre dieci anni affetto da depressione che gli impediva qualunque normale attività, è come rinato dopo aver incontrato il delfino Dorad. Anche per Jemima Biggs, ventenne depressa e affetta da anoressia, l’incontro con i delfini ha segnato una svolta, che si è consolidata alcuni anni dopo con un matrimonio.

Attualmente si stanno svolgendo programmi per ragazzi autistici o gravemente handicappati anche ad Eilat, in Israele, sebbene i risultati non siano ancora noti. La delfinoterapia è stata introdotta in Italia nel 1993 dall’associazione ARION che intende confermare, attraverso evidenze scientifiche, i risultati ottenuti all’estero. Dopo l’esame dei questionari e 50 ore di immersioni videoregistrate di volontari senza gravi patologie, che hanno tutti evidenziato effetti psicologici positivi per i partecipanti e molto interesse e spontanea partecipazione da parte dei delfini, si è passati a ragazzi, alcuni dei quali handicappati, e adulti depressi. Numericamente parlando, i dati a disposizione non sono ancora molti ma ci sono stati casi individuali con sviluppi molto interessanti.
Uno è quello di Monica, una donna affetta da sclerosi multipla. A testimonianza del suo caso vengono qui riportati alcuni tratti salienti di una lettera che lei stessa ha inviato al delfinario, qualche tempo dopo: "Il ricordo d’insieme che ho di quella giornata è una bellissima sensazione di entusiasmo, sicurezza, calore e voglia di comunicare". Il calore è ovviamente una percezione soggettiva perché la sua storia è ambientata in ottobre, l’acqua era fredda e la signora è uscita con le labbra livide per il freddo. "Ho sempre amato l’acqua, ho sempre saputo nuotare discretamente, anche se sono anni che non nuoto; ma dopo avere visto il video ho deciso di provare ad andare in piscina (anche se non ci troverò nè Speedy nè Alfa). Voglio dire che avevo permesso alla malattia assurda che ho, di impedirmi di fare dei programmi, di farmi credere che molte cose mi erano precluse. Però lì a Rimini mi sono sentita, seppure con l’aiuto indispensabile di altri, di nuovo capace di fare, di nuovo propositiva. Alcune delle persone che sapevano della mia esperienza coi delfini mi hanno chiesto se dopo camminavo meglio. A loro non ho saputo rispondere subito. Oggi so che le mie gambe non camminano meglio, per ora, ma dentro di me c’è qualcosa che cammina con una marcia in più rispetto a prima".

Anche Francesco, un bambino di 11 anni, della provincia di Torino, ha realizzato un miglioramento della sua salute fisica e psichica dopo una serie di esperienze vissute in acqua con Sole, Luna, Alfa, Beta e Speedy, dei deliziosi delfini. Francesco soffriva di epilessia, aveva difficoltà motorie, parlava molto poco e il suo livello cognitivo era molto basso. Fino a qualche tempo fa era affetto da psicosi infantile precoce di tipo autistico, un disturbo che gli è stato diagnosticato quando aveva soli due anni e mezzo, dopo che da un anno aveva smesso di dire le poche parole che sapeva e si era chiuso in se stesso. La causa dei suoi problemi, però, viene scoperta solo qualche anno dopo: ipersensibilità al latte, una forma ereditaria di allergia che colpisce in genere i secondogeniti per la presenza di allergeni sviluppati dall’organismo della madre nella prima gravidanza. La fortuna di Francesco è di aver iniziato la psicoterapia subito e di aver avuto continui stimoli: gli sport, la comunicazione facilitata tramite l’uso del computer, la scuola, la famiglia, gli amici, oltre, naturalmente, ad una dieta priva di latticini. Ma sono stati gli animali la molla che ha fatto scattare in lui lo stimolo a uscire dal suo mondo chiuso e solitario: la cagnetta Er, il cavallo Pablo con cui fa ippoterapia, e soprattutto i delfini Sole, Luna, Alfa, Beta e Speedy. L’incontro con i delfini è avvenuto nel Delfinario di Rimini, dove l’Associazione Arion, di Roma opera con progetti educativi e terapeutici e programmi di ricerca messi a punto dalla presidente della stessa, nonché pioniera della delfinoterapia in Italia, la psicologa Maria Giuseppini. Quando Francesco osserva i cinque delfini che giocano, schizzano acqua, fanno lunghi salti ed emettono gridi che sembrano invitarlo al gioco, è elettrizzato a tal punto che si stringe alla sua educatrice e la riempie di baci. E pensare che solo qualche anno prima, quando giunse al delfinario, il bambino non parlava, emetteva soltanto dei suoni incomprensibili, era molto impacciato nei suoi movimenti, pur avendo già ottenuto dei buoni risultati con l’ippoterapia. Dopo una settimana che è arrivato al delfinario ha compiuto la sua prima immersione con i delfini e con la psicologa. Vedersi nuotare i delfini tutt’intorno è stata per lui un’esperienza talmente entusiasmante che è scappato per ben due volte dalla stanza perché non riusciva ad esprimere in altri modi la sua gioia e la sua emozione. Sembrava come se quell’occasione fosse servita per scaricare nel corpo di Francesco tutta l’energia in eccesso che aveva accumulato negli anni addietro e che lo rendeva irrequieto. Dopo solo quattro giorni con i delfini i risultati sono stati evidenti: Francesco ha cominciato a parlare meglio e a partecipare più attivamente al programma; i suoi livelli di attenzione e di comunicazione, non solo con i delfini, ma anche con le persone che gli stanno accanto, sono aumentati, il suo sonno è diventato più regolare e tranquillo. Così Francesco ha descritto, tramite il computer, la sua esperienza: "Io ero fantino di un delfino in acqua, dono di mare limpido e serena compagnia di Marina, signora di delfini. Molto desideroso, pietoso, mansueto, paziente, felice, ben accetto da mamma, da Antonella, da Marina, buoni con la mia persona. I delfini baciavano i miei piedi e passavano sotto la mia pancia."
Un altro caso degno di attenzione è quello di Anna, una ragazza autistica che ora ha 18 anni e che si è immersa a Rimini per la prima volta nel 1994. Anna ha un ritardo molto grave del linguaggio (comunica solo con poche parole) e altrettanto gravi difficoltà di comunicazione (si rivolge quasi esclusivamente ai suoi genitori, evita costantemente lo sguardo). Con i delfini Anna ha avuto subito un contatto molto positivo. Fin dal secondo giorno ha cominciato a seguirli con lo sguardo, ad accarezzarli quando si avvicinavano, a giocare con loro schizzando acqua. Anna ha subito dimostrato grande entusiasmo per queste immersioni ed è sempre stata impaziente di ripeterle. La famiglia ha contribuito non poco ad integrare l’esperienza, parlandone spesso a casa, proiettando video, regalandole oggetti (magliette, asciugamani, piccoli gioielli) che raffigurano delfini. Dopo qualche mese il delfinario ha mandato alla paziente una videocassetta in cui Anna non era presente, e che era stata girata in condizioni molto differenti: era inverno, i volontari si immergevano con pesanti mute, la scaletta per scendere in acqua era posizionata diversamente, le riprese erano state girate da angolazioni differenti. Tra la commozione della madre, Anna era stata in grado di riconoscere il delfinario di Rimini e si era entusiasmata non poco al ricordo. L’anno successivo, nel 1995, durante il programma di immersioni, Anna è rimasta in contatto fisico e visivo con i delfini. A distanza di un anno, nonostante fosse sempre eccitata ed impaziente di immergersi, i suoi movimenti erano molto più coordinati e fluidi. Si immergeva tranquillamente anche senza il padre, e quando i genitori venivano invitati a non intervenire neppure verbalmente, dimostrava abilità nel proseguire la sua esperienza senza guida. Mentre in precedenza evitava accuratamente qualunque contatto verbale, sia visivo che fisico, con persone diverse dai suoi genitori, da allora mostrava in giro orgogliosamente, anche a persone che non conosceva, le sue magliette con i delfini, e racconta, se pure con un linguaggio molto limitato, le sue esperienze. Nel corso delle riunioni pomeridiane, soprattutto se sentiva che si parlava di lei, mostrava la sua attenzione e il suo interesse attraverso interventi semplici ma pertinenti. Rispondeva, anche se in modo un po’ indiretto, alle domande che le venivano poste: a volte camminava vicino all’istruttore e gli prendeva la mano. I notevoli progressi nel comportamento di Anna sono forse dovuti anche ad altre attività stimolanti ippoterapia, piscina, musicoterapia. Sembra tuttavia che i delfini abbiano rivestito un ruolo centrale. Questo è dovuto anche e soprattutto all’accorta gestione dell’esperienza da parte dei genitori, i quali hanno contribuito a mantenere vivo il ricordo tramite fotografie, filmati, capi di abbigliamento, oggetti vari e ha fatto sì che l’incontro con i delfini diventasse un tema speciale, capace di favorire le comunicazioni con i genitori e gli amici.

Ma come e perché funziona la "delfinoterapia"? Le risposte a tale quesito non sono univoche. Le ricerche finora svolte, sia in Italia che all’estero, hanno mirato soprattutto a quantificare i miglioramenti riscontrati, a seguito dell’incontro con i delfini, in persone sofferenti di disturbi psichici.
Solo occasionalmente sono state elaborate ipotesi sui motivi per cui questi animali sembrano avere un effetto "curativo". Il dottor Nathanson , come l’Aqua Tought Foundation, ritiene che la risposta sia da ricercarsi nelle variazioni delle onde cerebrali (sebbene non sia chiaro come queste variazioni vengano indotte), che denoterebbero soprattutto una notevole riduzione dello stress. Horace Dobbs e diversi studiosi australiani ritengono che siano soprattutto i suoni e ultrasuoni, emessi dai delfini, i responsabili dei cambiamenti negli esseri umani. In questo senso la University of South Australia, di Adelaide, sta conducendo alcune ricerche. Altre ipotesi, difficili da dimostrare, vanno dalla supposizione che i delfini possiedano uno speciale potere telepatico interspecifico, all’idea che emanino particolari energie vitali, che noi saremmo in grado di captare.

Tuttavia l’ipotesi attualmente più accreditata è quella che attribuisce l’efficacia della delfinoterapia ad un complesso di fattori, che vanno dall’immersione nell’acqua al contatto fisico e allo scambio giocoso con gli animali. L’immersione nell’acqua è di per sé un’ esperienza particolare, per il legame concreto, e l’acqua salata aiuta a sciogliere alcune rigidezze corporee che spesso corrispondono a blocchi emotivi; fornisce un sostegno che facilita l’equilibrio, la fluidità del movimento e le sensazioni di rilassamento che ne derivano. Il flusso dell’acqua, infine, offre una stimolazione tattile che migliora la percezione del proprio corpo. La presenza dei delfini sembra moltiplicare gli effetti positivi del contatto con l’acqua. Tutte le testimonianze raccolte indicano che l’incontro con queste creature è un’esperienza eccezionale, profondamente coinvolgente a livello psichico, forse anche a motivo della componente immaginaria e fantastica che ha dato origine a tanti racconti mitologici. Con il suo aspetto "sorridente", i suoi movimenti fluidi, il suo istintivo rispetto per lo spazio interpersonale (che fa sì che non si avvicini troppo a chi mostra timore) il delfino viene percepito in modo amichevole e meno minaccioso o giudicante degli esseri umani. Nello stesso tempo offre gratificanti opportunità di scambio, basate sul gioco e sul contatto fisico, che portano la comunicazione a un livello accettabile anche per le persone più chiuse in se stesse, come nel caso degli autistici. Il gioco con un delfino, inoltre, non è mai monotono o ripetitivo. La grande intelligenza di questi animali li rende capaci di inventare "trucchi" sempre nuovi e adeguati alle circostanze, tanto da riuscire a volte a spezzare anche le stereotipie di persone, come quelle autistiche, appunto, che sembrano imprigionate in una gabbia di comportamenti ripetitivi.
Altro aspetto importante della sperimentazione è l’intensificazione delle attività educative e riabilitative quotidiane fuori dal delfinario, che negli anni scorsi sono state delegate quasi totalmente alle famiglie. Infatti si è verificato, nel passato, che l’integrazione dell’esperienza con i delfini nella vita di tutti i giorni è un fattore importante per la stabilizzazione degli eventuali progressi compiuti, come nel caso di Anna.

Solo oggi, a riprova dei casi concreti che sono stati constatati da specialisti, la comunità scientifica italiana, dopo un iniziale scetticismo, sembra finalmente interessata alla delfinoterapia, ma ulteriori passi avanti devono ancora essere compiuti. Questo, ovviamente, renderà necessaria la creazione di strutture idonee, progetti pluriennali di attività terapeutiche, educative e di ricerca, che dovrebbero portare, anche in Italia, o comunque all’interno del Mediterraneo, alla creazione di un bacino naturale, dove i delfini possano vivere in semicattività, come è già accaduto nelle grandi lagune della Florida e del mar Rosso.

L’uso dei delfini nella riabilitazione di bambini portatori di handicap motori è stato studiato anche da Alder Allensworth e Deena Hoagland, presso il Dolphin Plus (Usa), un centro di ricerche sui mammiferi che offre servizi educativi di tipo naturale, utilizzando, tra le varie specie di animali, anche i delfini. Questi animali hanno dimostrato di interagire e di accettare incondizionatamente i bambini portatori di handicap motori dovuti ad ictus cerebrale, paralisi cerebrale e spina bifida. Mentre l’ambiente acquatico consente una maggiore mobilità ai pazienti, l’interazione dà loro una forte motivazione al trattamento.

 

Riferimenti e bibliografia:

dott.ssa Giuseppini 06 5818243 / 3397275015 – delfino teapia

dott. Salza 011 342069 Cooperativa Enzo B. – ippoterapia

Dr. Dave Nathanson
Dolphin Human Therapy
13605 South Dixie Highway #523
Miami, FL 33176
Miami (305) 361-3313

 

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