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Risale al 1811 la traduzione letterale "piacerò" dell’Hoopers Medical Dictionary che all’epoca definì il placebo come "Medicamento dato più per compiacere il paziente che per fornirgli beneficio". Da allora i passi avanti sono stati molti, tanto che è ragionevole ipotizzare che il placebo rappresenti il medicinale maggiormente studiato e conosciuto per l’enorme mole di lavori, che nel corso dei decenni, l’hanno confrontato con le più svariate molecole, sulla base del metodo sperimentale basato sui controlli. Ma di che cosa si tratta? È il confronto tra l’efficacia di un nuovo farmaco o un nuovo procedimento applicato su un gruppo di pazienti, rispetto a una sostanza neutra e innocua, il placebo appunto, somministrata a un altro gruppo altrettanto numeroso di pazienti. Sia i pazienti sia il medico sperimentatore devono, ovviamente, ignorare fino alla conclusione dell’esperimento, a quale gruppo saranno assegnati i diversi soggetti (metodo "doppio cieco"). La necessità di un gruppo di controllo è proprio legata all’esistenza dell’effetto placebo, in base al quale determinate malattie possono migliorare o guarire con la somministrazione di sostanze innocue e fasulle purché prescritte al paziente quali medicine. Lancet al proposito ha identificato in un lavoro del 1994 una serie di fattori che annullano o rinforzano l’effetto placebo, legittimandone così l’esistenza:
le iniezioni sono più efficaci delle compresse a parità di dosaggio e le compresse più grosse sono più efficaci di quelle piccole;
la fiducia del paziente nel medico aumenta l’effetto placebo, come pure gli attestati appesi alle pareti dello studio del medico;
l’effetto aumenta se si spiega al paziente il supposto meccanismo d’azione del farmaco;
l’effetto placebo è migliore nei pazienti ansiosi e in quelli dotati di scarsa capacità critica.
Visto così l’effetto placebo sembrerebbe una semplice "presa in giro" del
paziente, dipendente dalla sua suggestionabilità, dal carisma del medico, dal
tipo di malattia, dal colore e persino dal costo della medicina. Tutto qui?
INTRODUZIONE
I termini "placebo" ed "effetto placebo", sebbene da tempo siano entrati nel
comune lessico professionale del medico, continuano ad indicare gli aspetti
intriganti e misteriosi di ogni terapia, farmacologica o non farmacologica,
essendo rispettivamente i fattori ed i processi incontrollati che confondono la
dinamica della guarigione e ne mascherano la causa specifica.
Nella cultura medica occidentale il placebo e l'effetto placebo non godono
generalmente di buona fama, nonostante in passato la sola medicina veramente
efficace per ogni malattia fosse il placebo.
Il medico moderno, cresciuto nel mito della onnipotenza della scienza e della
tecnologia, difficilmente ammette che il placebo è un rimedio indispensabile,
ancor oggi, per la salute dei suoi pazienti, ed anche chi lo usa abitualmente,
come il medico omeopata, rifiuta ostinatamente di ammetterlo e non accetta le
evidenze che la ricerca sperimentale gli offre.
Il ricercatore clinico usa il placebo come strumento di ricerca per validare
l'efficacia terapeutica di un farmaco o di altri trattamenti, ma raramente è
catturato dal desiderio di studiare il placebo e l'effetto placebo come oggetti
specifici di ricerca degni di attenzione, e di trasformarli in processi
terapeutici autentici e controllabili.
L'atteggiamento diffuso di fastidio, rifiuto o rimozione nei confronti del
placebo e dell'effetto placebo deriva principalmente dai presupposti
epistemologici, culturali e storici della farmacologia e della ricerca clinica
sperimentale. In particolare l'adozione prevalente del dualismo soma-psiche
attuata dalla scienza occidentale per rappresentare la realtà dell'uomo, e
l'abituale semplificazione del determinismo ad una lettura monocausale per
interpretare i fenomeni complessi che caratterizzano la malattia e la guarigione
di una persona, condizionano anche le possibili interpretazioni dell'effetto
placebo.
D'altra parte i sistemi viventi alla base dei processi di malattia e di
guarigione di un paziente non sono lontanamente confrontabili con i sistemi
isolati fisici, chimici od anche biologici, che siamo abituati a studiare in
laboratorio. Possiamo affermare che sicuramente non sono sistemi lineari, né
sistemi semplici: la vita non è compatibile con una ipotesi di sistema lineare
chiuso, e la complessità delle strutture e delle funzioni che costituiscono un
organismo vivente è immediatamente evidente.
La semplificazione, di solito attuata, di considerare una noxa principale come
causa di malattia ed il farmaco come causa principale di guarigione è una
operazione talvolta indispensabile per motivi pratici, produce modelli di
conoscenza facilmente comprensibili, e perciò rassicuranti, ma allontana la
possibilità di conoscere il significato e la ricchezza della complessità delle
relazioni multicausali che caratterizzano i processi biologici e terapeutici. Un
esempio tipico è quello delle malattie infettive per le quali si riconosce una
noxa specifica in un microrganismo patogeno ed una terapia specifica nel
trattamento con un antibiotico al quale il microrganismo è sensibile: ma in
questa rappresentazione si dimentica o trascura un attore fondamentale che è
interpretato dal sistema immunitario, senza il cedimento del quale difficilmente
la malattia infettiva si sviluppa e senza l'attivazione del quale la guarigione
è molto incerta, come risulta evidente nei pazienti immunocompromessi. Si noti
poi che il sistema immunitario è modulato da stimoli ambientali ed è
intrinsecamente integrato col sistema nervoso centrale: condizioni ambientali,
stati psichici emozionali e cognitivi modulano il sistema neuroendocrino ed
immunitario e possono modificare il decorso di una patologia infettiva ed
integrare l'azione antibatterica dell'antibiotico.
Variabili appartenenti alla sfera psichica, come emozioni, aspettative,
suggestioni, sono in grado di modificare non solo stati psicopatologici, ma
anche malattie del soma, così come farmaci che agiscono sul soma sono in grado
di produrre alterazioni delle funzioni psichiche. L'analisi del placebo e
dell'effetto placebo conduce al cuore del problema del rapporto psiche-soma.
La necessità di comprendere in una visione scientifica i fenomeni del placebo e
dell'effetto placebo ci porta ad adottare il modello di analisi sistemico,
capace di integrare in un insieme unico ed armonico aspetti tradizionalmente
dicotomici come il soma e la psiche, e di rappresentare la molteplicità delle
relazioni causali entro l'organizzazione gerarchica dei sistemi che compongono
l'individuo ed il suo ambiente terapeutico.
In questa breve rassegna esamineremo le conoscenze fondamentali acquisite circa
il placebo e l'effetto placebo e cercheremo di interpretarle in base al modello
sistemico.
IL PLACEBO NELLA TERAPIA
Nei tempi passati, la quasi totalità dei successi terapeutici, non solo dei
trattamenti prescritti da stregoni, guaritori, sciamani, sacerdoti ma anche di
quelli prescritti da medici, era basata sull'effetto placebo. Basti pensare ai
medicamenti usati fin dai tempi di Ippocrate e tuttora in alcune realtà, quali
parti anatomiche o liquidi biologici di animali, oppure alle pratiche quali
salassi, clisteri o scarnificazioni.
Tutti gli antichi rimedi che oggi possiamo classificare come placebo erano
vissuti come medicine autentiche dagli addetti ai lavori e dai pazienti.
Tuttavia l'efficacia del "compiacere il paziente", magari con l'inganno, doveva
essere nota fin dall' antichità se nella Repubblica di Platone si legge:
"una menzogna è utile soltanto come medicina per gli uomini. L'uso di tale
medicina sarebbe riservato al medico".
Moertel e coll. dichiarano: "Dall'antichità a questa era di progresso medico, il
placebo è stato l'unico, più potente e versatile strumento per alleviare le
sofferenze, che l'uomo abbia ereditato.
La posizione di rispetto del medico attraverso la storia. documentata, deve
essere attribuita in larga misura alla notevole tendenza dell'uomo a rispondere,
nel dolore, a medicine fittizie. Anche quando i farmaci farmacologicamente
attivi di oggi sono usati, può benissimo essere che la massima parte del
sollievo sintomatico che i nostri pazienti avvertono sia il prodotto
dell'effetto placebo".
Il trionfo della medicina moderna ed i successi delle terapie validate con
indagini sperimentali ha portato a trascurare quasi totalmente, ed a rimuovere
l'idea di un utile applicazione terapeutica del placebo. Tuttavia, dagli studi
controllati in doppio cieco, emerge che il placebo in molte malattie è molto
efficace e giustifica tali di successi non trascurabili.
L'effetto placebo si manifesta nel corso di terapie sia di malattie mentali che
di psicosomatiche e somatiche. La risposta al placebo può coinvolgere
praticamente ogni organo o sistema del paziente. L'esperienza clinica
contraddice comunque la credenza di molti che la risposta al placebo identifichi
un soggetto nevrotico o che possa comunque riguardare esclusivamente processi
psichici.
L'efficacia terapeutica del placebo varia a seconda delle patologie prese in può
interessare, in certi casi, anche 1'80% dei pazienti.
Nel campo della cura delle forme morbose acute, l'effetto placebo è stato assai
sfruttato, anche perché solitamente, nei confronti di queste patologie, sono
disponibili specifici trattamenti. Nonostante ciò, esistono importanti esempi di
eliminazione, tramite somministrazione di placebo, di sintomi acuti
accessionali, quali dispnea asmatica, episodi di angina pectoris ed episodi
acuti di gastralgie.
Sturdevant (75), analizzando l'effetto antalgico di sostanze anti-acide nei
confronti del dolore spontaneo da ulcera duodenale, individuava due componenti
dello stimolo algogeno e la risposta affettiva. Il placebo sarebbe capace di
modificare la risposta affettiva producendo un beneficio nei pazienti con ulcera
duodenale. Altri fattori, quindi, oltre alla neutralizzazione della acidità
gastrica quale algogeno, sarebbero in grado di alleviare il dolore nel paziente
ulceroso. La somministrazione di antiacidi sarebbe quindi rapidamente efficace
nel controllare il dolore gastrico, non solo modificando lo stimolo, ma anche, o
forse soprattutto, modificando la percezione del dolore. In questa ottica si può
giungere a capovolgere il problema: non è più il placebo che imita un farmaco
attivo, bensì il farmaco attivo è accusato di sfruttare l'effetto placebo.
Nel campo delle patologie croniche l'effetto placebo è stato maggiormente , e
questo fatto ha contribuito a far nascere l'ipotesi, mai confermata
empiricamente, che il placebo sia più efficace nei trattamenti cronici.
Il dolore acuto, come quello cronico, rappresenta uno dei sintomi più sensibili
al placebo. Boureau ha studiato l'efficacia del placebo, somministrato per via
intramuscolare due volte al giorno per 7 giorni, nel controllo del dolore da
metastasi ossee. Il placebo è risultato efficace nel 57 % dei soggetti secondo
il giudizio del medico e nel 51 % secondo l'autovalutazione dei pazienti. Il
miglioramento medio è del 30-40% secondo le scale di autovalutazione e
persistette altri 7 giorni oltre il trattamento di una settimana.
La maggior parte delle malattie psichiatriche, dalle psiconevrosi alle
depressioni fino alla schizofrenia, rispondono al placebo. Diversi studi
dimostrano che la differenza di efficacia tra farmaco e placebo nel trattamento
delle depressioni è soltanto del 25% circa. Nei disordini psichiatrici maggiori
quali le sindromi maniacali e le schizofrenie la differenza di attività tra
psicofarmaco e placebo è invece di circa il 50%.
Anche pazienti affetti da gravi patologie organiche, come l'insufficienza
cardiaca congestizia cronica, rispondono al placebo in alta percentuale.
Nella terapia delle malattie che alcuni autori ritengono di natura
psicosomatica, come l'ulcera peptica, l'effetto placebo è in genere manifesto in
una percentuale elevata di soggetti. Secondo Dobrilla la cicatrizzazione
dell'ulcera peptica indotta dal placebo, usato come controllo nel corso di
trial clinici sperimentali attuati per validare i più recenti farmaci
antiacidi, si verifica nel 23-58% dei pazienti, con variabilità elevata da
studio a studio.
Molto controversa è l'importanza dell'effetto placebo nel contribuire alla
riduzione dell'ipertensione arteriosa. Come per altre patologie la percentuale
di risposte placebo varia molto in funzione del disegno sperimentale e delle
procedure adottate.
In pazienti affetti da ipertensione di grado lieve medio si può osservare un
effetto placebo in circa il 20% dei casi se la pressione è misurata con lo
sfigmomanometro nell'ambulatorio del medico. L'insieme dei dati relativi al
trattamento dell'iperteso, sebbene apparentemente contrastanti, conferma che
fattori relazionali ed ambientali sono alla base della risposta placebo, mentre
situazioni povere di elementi informativi o suggestivi sono correlate alla
mancanza di effetto placebo.
Si deve sottolineare che l'effetto placebo si manifesta non solo nel corso di
terapie farmacologiche, ma anche in ogni altro tipo di terapia.
Nuove tecniche chirurgiche danno inizialmente ottimi risultati che, col
trascorrere del tempo, si riducono: il peso della risposta placebo si decanta e
lascia spazio al solo valore tecnico dell'intervento, mentre tutto il potenziale
del placebo si trasferisce eventualmente su una nuova tecnica chirurgica. Coob,
in uno studio in doppio cieco su 17 pazienti sofferenti di angina pectoris, ha
analizzato l'efficacia della legatura delle arterie mammarie in confronto con un
intervento placebo consistente nella semplice incisione cutanea con sutura. E
risultato evidente che l'andamento dei due gruppi di pazienti non era diverso,
anzi il miglioramento più cospicuo si è avuto in un paziente che aveva subito
unicamente l'incisione cutanea. Anche in chirurgia, dunque, l'effetto placebo
gioca un ruolo determinante in relazione all'atteggiamento di scetticismo o di
ottimismo del chirurgo.
L'efficacia della terapia antiflogistica a base di ultrasuoni è stata studiata
da Hashish in 150 pazienti sottoposti ad estrazione dentaria del 3° molare
inferiore e trattati in doppio cieco con diversi livelli di intensità di
ultrasuoni. L'edema della guancia, il trisma, il dolore e la concentrazione
sierica della proteina C reattiva sono risultati significativamente ridotti dopo
applicazione di ultrasuoni o della sola manovra placebo (intensità zero), in
confronto col gruppo di controllo non trattato. L' entità della risposta
terapeutica è risultata più elevata con la manovra placebo ed inversamente
proporzionale alla intensità del campo di ultrasuoni applicato. È dunque
legittimo il sospetto che molte pratiche terapeutiche basate su campi elettrici,
elettromagnetici o su altre forme di irradiazione, debbano il loro successo e la
loro rapida diffusione al potente ed onnipresente effetto placebo.
La pratica del consenso informato può produrre a secondo di come è ottenuta un
effetto placebo o nocebo.
LA STRUTTURA DEL PLACEBO E I SUOI COMPONENTI
L'effetto placebo si presenta con aspetti multiformi e dinamici per cui ogni
tentativo di caratterizzare la causa "placebo" in modo univoco ed esauriente
risulta facilmente vano. È ormai chiaro, infatti, che il farmaco placebo è solo
uno dei tanti fattori che contribuiscono a determinare l'effetto placebo.
Ogni autore ha tentato di analizzare il fenomeno del placebo e dell'effetto in
base ai propri modelli culturali, privilegiando ora le caratteristiche del
placebo, ora le dinamiche del rapporto medico-paziente, ora l'ipotesi di una
determinante personologica (placebo responders-non responders).
Collard riconosce, nell'effetto placebo, alcuni fondamentali elementi
costitutivi: il farmaco placebo o mezzo, l'operatore o terapeuta, la capacità
del paziente di rispondere o di essere refrattario al placebo, l'ambiente nel
quale si effettua il trattamento. La relazione che si instaura tra questi
elementi, in riferimento alla suggestionabilità del rispondente, conferisce
all'effetto placebo la sua vera dimensione. L'effetto placebo si avvale di un
operatore entusiasta e fiducioso dell'atto terapeutico che compie, di un
prodotto placebo rappresentato nelle forme e nelle modalità di assunzione di un
farmaco attivo, di un paziente desideroso di ricevere il beneficio e cotagiato
dalla fiducia che il medico ostenta, di un ambiente simbolicamente significativo
(ospedale, centro di ricerca, ambulatorio) con personale serio e specializzato.
Elementi costitutivi del principio farmacologico e significativamente attivi nel
generare un effetto placebo sono il colore, il sapore, la via di
somministrazione, la dimensione, il nome e il prezzo del farmaco. Preparati
vivacemente colorati o del colore preferito dal paziente si dimostrano più
efficaci essendo in grado di colpire maggiormente la sua fantasia. Determinati
colori sembrano in grado di influenzare selettivamente alcuni tipi di patologie:
il verde sarebbe più efficace nei confronti dell'ansia, mentre il giallo sembra
essere il colore ottimale nei confronti della depressione.
Sapori amari o particolarmente saporiti producono effetti superiori a quelli
insipidi.
Riguardo alle dimensioni le considerazioni possono essere diverse: mentre una
compressa grossa impressiona per le dimensioni, una con dimensioni più contenute
può suggerire una maggiore potenza per il principio attivo. Anche un alto costo
può influenzare la sfera emotiva del paziente favorendo la comparsa di effetti
placebo benefici.
Vie di somministrazione diverse da quella orale che richiedano l'intervento di
operatori sanitari od una ritualità accentuata, creano condizioni più favorevoli
alla suggestione del paziente. In questo senso la via più efficace nel generare
l'effetto placebo risulta quella intramuscolare o endovenosa.
L'effetto placebo deriva, oltre che dalla sostanza somministrata, anche da
fattori comprendenti il paziente, il medico, ed il rapporto che si instaura tra
i due. L'effetto placebo non è quindi solo il risultato della somministrazione
di un prodotto inattivo ma origina e si sviluppa all'interno del rapporto
globale medico-paziente.
Lo stato psicologico del paziente incide sulla sua risposta a farmaci sia attivi
che inattivi. Più è alto il livello di partecipazione del soggetto e più è
grande la sofferenza, con maggiore probabilità il placebo apporterà sollievo.
Soprattutto la speranza e la convinzione dell'efficacia del trattamento sembrano
influenzare maggiormente il grado di efficacia del placebo.
I medici che hanno fede nell'efficacia del loro trattamento fan sì che
l'entusiasmo sia comunicato, hanno forti speranze di un effetto specifico, sono
fiduciosi e speranzosi, e sono i più efficaci nel produrre effetti placebo
positivi. La durata del tempo speso con il paziente e l'attenzione professionale
del medico e dell'eventuale équipe, sono fattori di grande importanza nel
condizionare l'effetto placebo. Anche una situazione non terapeutica, bensì di
ricerca, può avere effetti positivi.
Sia il medico che il paziente contribuiscono, dunque, all'effetto placebo, ma
probabilmente il fattore più importante risiede nella dinamica di interazione
tra i due. Gli atteggiamenti del medico e del paziente che creano una valida
interrelazione medico-paziente contribuiscono alla produzione dell'effetto
placebo.
Anche Shapiro ritiene che una valida interazione medico-paziente sia di estrema
importanza perché permette il trasferimento dei pensieri del paziente ad una
persona, il medico, alla quale si riconoscono doti scientifiche e capacità
professionali come terapeuta. L'effetto placebo, dunque, non è semplicemente il
risultato del prendere una medicina inerte ma illustra, a livello del risultato
clinico, la tipologia ed il significato del rapporto medico-paziente nella sua
globalità. Si deve osservare che se il rapporto è positivo l'esito tende ad
essere positivo, mentre se il paziente reagisce negativamente all'impatto
terapeutico i sintomi possono essere esacerbati e possono comparire effetti
collaterali di varia natura, soprattutto correlati all'ansia. Secondo Freedman,
affinché gli effetti non specifici della terapia siano esaltati, deve esserci
accordo tra il modo di affrontare la terapia da parte del medico e
l'atteggiamento del paziente verso la malattia e ciò che si attende dal
trattamento.
In una popolazione di pazienti la risposta terapeutica o tossicologica alla
somministrazione di placebo non sempre compare. Molti autori ritengono che anche
variabili sociali e psicologiche del soggetto influenzino la comparsa di effetti
placebo i e la loro connotazione positiva o negativa, sicché sarebbe possibile
classificare i pazienti in placebo-responders e placebo-non responders.
I risultati ottenuti dai diversi autori sono spesso tra loro contradditori. In
una indagine sperimentale attuata da Moertel sono risultati
placebo-responders il 39% dei pazienti. I pazienti che denunciavano effetti
placebo presentavano in genere una più intensa risposta anche ai farmaci attivi.
Secondo Moertel e coll. i soggetti maschili sembrano leggermente più responsivi
delle femmine, ma questo risultato non è stato confermato dagli studi di Lasagna
e coll. Anche sul rapporto tra età e capacità di risposta al placebo esistono
pareri contrastanti: secondo Lasagna con l'età aumenta la percentuale di
soggetti sensibili all'effetto placebo, mentre secondo l'indagine di Moertel
l'età non ha influenza.
La ricerca di Moertel indica che i pazienti che hanno subito una traumatica
interruzione del matrimonio (morte, divorzio, separazione) sono nettamente più
sensibili all'effetto placebo rispetto a quelli felicemente sposati o
nubili/celibi; le donne sposate senza figli sono più refrattarie al placebo di
quelle con prole.
Nella popolazione generale esiste un rapporto inverso, secondo Lasagna, o
diretto, secondo Moertel, tra grado culturale e di scolarizzazione e risposta
all'effetto placebo. Così nel campo della occupazione esiste un progressivo
aumento di soggetti sensibili salendo verso occupazioni di tipo specializzato e
di alta responsabilità; tra le donne, coloro che lavorano fuori casa sono molto
più sensibili al placebo delle casalinghe.
Nessuna correlazione tra religione praticata, ideologia seguita, presenza di
malattie fisiche o psichiche recenti o passate e sensibilità al placebo è stata
riscontrata da Moertel.
I soggetti sensibili all'effetto placebo presentano una prevalenza di effetti
collaterali a carico del S.N.C. (sedazione, vertigini, obnubilamento del
sensorio) mentre i soggetti meno sensibili li presentano a carico dell'apparato
digerente (turbe gastrointestinali, vomito, nausea). Non esiste alcuna
correlazione con il consumo di bevande alcoliche mentre i fumatori sembrano
refrattari a tale effetto.
Secondo Moertel i pazienti sensibili all'effetto placebo sarebbero quindi
caratterizzati da uno stile di vita con un alto senso di responsabilità, e
quindi la dipendenza indotta dal dolore o dalla malattia provocherebbe un grosso
senso di frustrazione che i soggetti sono impreparati ad affrontare e
controllare. Il risultante bisogno emotivo potrebbe provocare l'autoinganno del
sollievo del placebo collegato al fatto che il livello culturale elevato può
ingenerare maggior fiducia nei progressi della medicina. I soggetti insensibili
all'effetto placebo, in questa visione, sarebbero soggetti che conducono una
vita più dipendente da persone e situazioni per cui la malattia potrebbe
modificare in misura molto minore il loro usuale schema di vita.
Lasagna e Joyce individuano nel soggetto più dipendente, ansioso, accentratore,
emotivamente labile, il paziente più sensibile al placebo. Questo soggetto è più
estroverso, socievole e dipendente dagli stimoli esterni ma meno fiducioso in se
stesso, ha una maggiore consapevolezza delle funzioni corporali ma tende ad
avere più stimoli sotto stress, usa più frequentemente analgesici, sedativi,
purghe. Questi Autori ipotizzano che la risposta placebo sia un fenomeno di
autoipnosi che risulta da una esagerata necessità di dipendenza orale. In questo
senso è spiegabile la minore sensibilità del fumatore che ha già soddisfatto,
nella sua abitudine voluttuaria, il suo bisogno orale.
I MECCANISMI DI AZIONE DEL PLACEBO
I ricercatori di indirizzo biologico cercano spiegazioni dell'effetto placebo in
meccanismi molecolari e neurochimici, fiduciosi di trovare, anche per fenomeni
complessi che coinvolgono l'intero organismo e tutte le sue funzioni,
spiegazioni semplici in una molecola, in un nucleo o in un circuito neuronale. I
ricercatori di indirizzo psicologico ricorrono alle costruzioni teoriche delle
scuole psicodinamiche, e quelli che ritengono irrinunciabile l'approccio
sperimentale, ricorrono alle teorie behavioristiche sviluppate e consolidate
anche nel campo della psicofarmacologia.
La comprensione dei meccanismi d'azione del placebo è, inoltre, sicuramente
complicata dal numero di variabili che intervengono nel determinare l'effetto
placebo e dalla notevole disomogeneità e frammentarietà dei dati sperimentali.
Alcuni autori hanno tentato di spiegare l'effetto placebo mediante la teoria
dello stress di Selye. Secondo Selye lo stress è il denominatore comune
di tutte le reazioni d'adattamento dell'organismo. L'effetto placebo sarebbe un
equivalente della risposta di adattamento omeostatico alla suggestione ed al
desiderio di compiacere il medico.
Beecher è riuscito a produrre, mediante placebo, le diverse modificazioni
umorali che caratterizzano lo stress (modificazione dei neutrofili, rarefazione
dei linfociti e degli eosinofili, aumento dei 17 chetosteroidi nelle urine) e ha
dimostrato che il placebo risulta tanto più attivo quanto più drammatico è il
contesto in cui è somministrato.
La teoria dello stress, che ha avuto fortuna alcuni decenni fa, è ormai superata
nella sua generalizzazione. Accanto al sistema ipotalamo-ipofisisurrene sono
oggi noti e descritti molti altri sistemi capaci di regolazione omeostatica nei
confronti di stimoli propriocettivi ed esterocettivi. Basti ricordare il sistema
immunitario, il sistema neurovegatativo, il sistema
renina-angiotensina-aldosterone, tutti controllati da complessi circuiti
regolatori neurologici ed umorali.
Una teoria biologica più sofisticata e moderna, ma con gli stessi limiti, viene
sostenuta da Levine, Gordon e Field sulla base di un esperimento attuato allo
scopo di studiare il meccanismo dell'effetto analgesico da placebo. Secondo
questa teoria l'effetto placebo sarebbe mediato dalle endorfine. È noto che un
grado adeguato di analgesia può essere indotto in una percentuale elevata di
pazienti con la somministrazione di placebo. La ricerca di Levine e coll. ha
confermato questo risultato, ma ha anche evidenziato che la somministrazione di
naloxone, antagonista puro della morfina, diminuisce o annulla l'effetto
analgesico del placebo. Poiché è noto che il naloxone agisce bloccando i
recettori che mediano l'azione sia della morfina che di endorfine, si può
ritenere che la diminuzione dell'analgesia da placebo osservata con il
trattamento di naloxone sia dovuta all'antagonismo competitivo con le endorfine:
la liberazione di endorfine spiegherebbe dunque la comparsa dell'analgesia in
seguito alla somministrazione di placebo.
Le endorfine sono oggi riconosciute come principali mediatori dell'analgesia da
stress, ed il sistema neurochimico delle endorfine e dei relativi
recettori partecipa sicuramente alla modulazione della formazione, conduzione ed
elaborazione della percezione del dolore. Dobbiamo, tuttavia, osservare come
l'esperienza del dolore, e della sofferenza, coinvolga molte strutture
neuronali, molti sistemi neurochimici oltre quello delle endorfine, e si
sviluppi in una continua interazione tra sfera emotiva e sfera cognitiva. È
difficile credere che le endorfine siano l'unico mediatore del dolore ed è
verosimile invece che, se si ricercano, si possano trovare molti altri correlati
neurochimici all'analgesia indotta da placebo. Le endorfine, d'altra parte,
hanno probabilmente ruoli importanti non solo nei fenomeni correlati al dolore,
ma anche in altri processi psichici e comportamentali, e sono certamente in
grado di modulare manifestazioni somatiche periferiche. L'effetto placebo (o
nocebo) si manifesta in ogni tipo di terapia e si ha motivo di ritenere che sia
un fenomeno che coinvolga potenzialmente ogni processo patologico, anche quelli
nei quali sicuramente le endorfine non sono implicate. Non è quindi proponibile,
a nostro avviso, un ruolo delle endorfme come unico, o principale, mediatore di
ogni effetto placebo.
Tra i meccanismi psicologici gioca un ruolo determinante nella genesi
dell'effetto placebo la suggestione e l'autosuggestione.
Indubbiamente il placebo acquista tutta la propria valenza nella cornice del
rapporto medico-malato, nel senso che la potente efficacia simbolica del
preparato deriva dal fatto di essere considerato alla stregua di un dono del
medico che rappresenta. In ogni malato esiste una possibilità di regressione a
un livello di pensiero prelogico dominato dall'obbedienza ai simboli arcaici. Il
placebo simboleggia la guarigione, ma anche il medico, il taumaturgo, il mago
apportatore della guarigione (Valabrega). Lo stesso fenomeno di trans/ert,
con i meccanismi di proiezione e di identificazione, favorisce la guarigione del
paziente.
R. Van Dyck e K. Hoogduin hanno esaminato l'ipotesi che l'ipnosi sia dovuta
all'effetto placebo ma l'esame della letteratura sperimentale indica che gli
effetti placebo non sono correlati alla ipnotizzabilità.
La psicologia sperimentale ha prodotto sue spiegazioni, che sono alcune delle
possibili spiegazioni dell'effetto placebo. L'effetto placebo può essere
interpretato come riflesso condizionato di tipo pavloviano. Il condizionamento è
un'operazione tramite la quale si rende efficace, con la produzione di un nuovo
riflesso, uno stimolo che normalmente non lo è. Nel nostro caso, se a un
soggetto si prescrive un placebo avente lo stesso aspetto di un medicamento
attivo che in precedenza sia stato somministrato con successo, il primo
provocherà effetti identici. La risposta al placebo dipende quindi, secondo
questa teoria, dalle precedenti risposte ad altri medicamenti attivi. La
creazione di un riflesso condizionato e la sua forza dipendono da fattori
personali (la "costituzione" di un soggetto), dal tipo di condizionamento
indotto (numero di riflessi indotti, attività intrinseca del farmaco induttore),
dalla personalità del medico che con la sua fama, la sua dialettica, la sua
abilità di persuasione può favorire l'instaurarsi del condizionamento, talvolta
divenendo egli stesso stimolo condizionato.
In effetti la scuola Skinneriana ha dimostrato come molte forme di apprendimento
sono giustificabili in base al modello di "condizionamento operativo". Alcuni
degli sviluppi applicativi di questa teoria hanno portato agli sviluppi delle
metodologie di biofeedback mediante le quali il paziente apprende
l'autocontrollo terapeutico non solo di disturbi psichici, ma anche di sintomi e
danni organici e viscerali.
L'IPOTESI SISTEMICA E L'IDEA DI SALUTE-MALATTIA-GUARIGIONE
Il placebo, sebbene mal definibile in termini di causazione, può essere inteso
come un insieme di fattori extrafarmacologici capaci di indurre modificazioni
dei processi, anche biologici, di guarigione intervenendo a livello psichico:
non per nulla molti autori considerano quasi sinonimi i termini placebo e
suggestione.
Secondo la "teoria generale dei sistemi" tutto l'esistente costituisce un grande
sistema che racchiude ed integra infiniti sottosistemi gerarchicamente ordinati
e totalmente determinati dalle relazioni tra i vari oggetti.
Il fenomeno della terapia può essere rappresentato secondo un modello
semplificato di "sistema terapeutico" caratterizzato da alcune figure
fondamentali, il paziente il medico le terapie (farmaci, interventi, ecc.) ed il
contorno ambientale, e dalle loro relazioni multiple.
Le condizioni specifiche di ciascuna malattia e di ciascuna terapia fanno
intravvedere la possibilità di identificare "sistemi terapeutici" differenti gli
uni dagli altri per alcuni aspetti, ma basati su una comune struttura di
elementi fondamentali quali il paziente, centro di ogni attenzione terapeutica
diretta, l'ambiente, centro di attenzione secondaria per le possibilità di
interventi preventivi e riabilitativi, il medico, quale controllore principale,
i farmaci e le altre terapie, quali strumenti di intervento diretto sul
paziente.
Tranne rarissime eccezioni un farmaco agisce sempre su molti sistemi
contemporaneamente: ciò è legato peculiarmente alla formazione artificiale dello
stimolo farmacologico nei vari compartimenti in dipendenza delle modalità di
somministrazione e della funzione di input attuata attraverso le scelte della
forma farmaceutica e della posologia. In questo si stabilisce la fondamentale
differenza tra la regolazione fisiologica di una sostanza endogena e la
regolazione farmacologica della stessa sostanza endogena usata in terapia.
L'effetto placebo costituisce un insieme di cause aspecifiche,
extrafarmacologiche, che vengono applicate, da sole o parallelamente alla causa
specifica farmacologica, sul sistema "individuo ammalato". L'effetto placebo è
il manifestarsi dei processi messi in atto dall'applicazione di tali cause
aspecifiche sull'organismo.
Il placebo entra direttamente nella struttura del "sistema terapeutico", come
componente fondamentale, caratterizzata tuttavia da un completo polimorfismo non
standardizzabile.
Alla risposta placebo partecipa peraltro tutto l'organismo ed in particolare
sembrano essere maggiormente coinvolte quelle strutture e quelle funzioni del
sistema neurovegetativo e neuroendocrino che, dipendendo più direttamente dal
SNC, sono in grado di controllare gli eventi biologici e biochimici sia in modo
autonomo sia in dipendenza dalla sfera psichica.
La aspecificità del placebo e dell'effetto placebo porta a concludere che non
può esistere un unico meccanismo neurochimico e neurofisiologico alla base di
questo polimorfo fenomeno.
Il modello sistemico come quadro di riferimento ci mette in guardia da
interpretazioni semplicistiche monocausali e consente di apprezzare la ricchezza
della struttura e delle capacità di adattamento dell'organismo.
ASPETTI ETICI DELL'USO DEL PLACEBO
L'impiego del placebo sia in terapia che nei trias clinici pone alcuni
problemi di natura etica. In una certa misura l'uso del placebo comporta un
deliberato inganno e uno sfruttamento del paziente. L'uso paternalistico di una
bugia a fin di bene risulta discutibile in quanto vengono compromessi
l'autonomia e la dignità del paziente e il suo diritto a gestire personalmente
la sua salute o la sua malattia. Questa visione fa osservare a Simmons nel
placebo "un grave costo etico dell'inganno e della disonestà".
Quando poi il medico, all'interno di trias clinici, rivela al paziente la
natura del farmaco somministrato si viene ad incrinare un rapporto fiduciario
per il quale il mascheramento di informazioni rilevanti per il paziente può
configurare il reato di frode.
Ci sono due scuole di pensiero in materia etica che competono per un principio
supremo: una guarda la conseguenza di un atto e quindi il risultato (il paziente
migliora con il placebo anche se l'infermiera perde fiducia nel medico), l'altra
guarda la natura dell'atto in sé (la falsità implicata). La prima potrebbe
essere considerata come una visione utilitaristica, la seconda come una visione
deontologica. Vi è anche un altro approccio al problema e questo è il
tradizionale punto di vista di molti professionisti: è migliore la persona che
fa il miglior lavoro. Il buon medico userà bene il placebo.
C'è anche chi dà alla questione un diverso inquadramento: qualcuno pensa che i
placebo siano rimedi inattivi e così inganna i pazienti in modo immorale; le
cose non stanno certamente così: i placebo non sono totalmente inattivi, essi
sono farmacologicamente inattivi.
(Enrico Gennazzani)