Università degli Studi di Torino
Facoltà di Psicologia
Anno accademico 2000-2001


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Materiali per il corso a cura degli studenti

L’enigma dell’esperienza conscia.

Traduzione in italiano del lavoro

The Puzzle of Conscious Experience di David J. Chalmers
Department of Philosophy
University of Arizona
Tucson, AZ 85721
chalmers@arizona.edu

a cura di
Claudia ABBRUGIATI
Rossana BUCCHERI
Francesca CHIUSANO


L’esperienza conscia è contemporaneamente la cosa più familiare al mondo e la cosa più misteriosa. Non c’è niente che conosciamo in modo più diretto della coscienza, ma è straordinariamente difficile conciliare essa con tutto il resto delle nostre conoscenze. Perché esiste? Che cosa fa? Com’è possibile che essa sorga dai processi neurali del cervello? Queste domande figurano tra quelle più intriganti di tutta la scienza.

Da un punto di vista oggettivo, il cervello è relativamente comprensibile. Nel momento in cui si guarda questa pagina, scattano una serie di processi : fotoni colpiscono la retina, segnali elettronici passano attraverso il nervo ottico e tra zone diverse del cervello ed infine potresti rispondere con un sorriso, una smorfia di perplessità o un commento. Ma c’è anche un aspetto soggettivo. Nel momento in cui si guarda questa pagina, si è consci di essa, sentendo direttamente le immagini e le parole come parte della propria vita privata e mentale. Si hanno delle impressioni vivide di fiori colorati e di un cielo vibrante. Al contempo si possono sentire delle emozioni e formulare dei pensieri. Insieme tali esperienze costituiscono la coscienza: la vita soggettiva, interiore della mente.

Per tanti anni, il problema della coscienza è stato evitato dai ricercatori che studiavano il cervello e la mente. L’idea prevalente era che la scienza, che dipende dall’oggettività, non poteva ammettere qualcosa di così soggettivo come la coscienza. In psicologia il movimento comportamentista, dominante fino agli anni ‘50, si concentrava sul comportamento esterno e non accettava nessuna menzione dei processi mentali interni. Più tardi l’ascesa della scienza cognitiva focalizzò l’attenzione sui processi all’interno della testa. Tuttavia il problema della coscienza rimase off-limits, adatto soltanto alle discussioni informali tra amici.

Negli ultimi anni, comunque, un numero crescente di neuroscienziati, psicologi e filosofi hanno rifiutato l’idea che la coscienza non possa essere studiata e stanno tentando di carpire i suoi segreti. Come ci si potrebbe aspettare da un campo così nuovo, esiste un groviglio di teorie diverse e conflittuali, spesso utilizzanti concetti di base in modi incompatibili. Per aiutare a districare questo groviglio il ragionamento filosofico è fondamentale.

Le miriadi di punti di vista nel campo spaziano dalle teorie riduzioniste, secondo le quali la coscienza può essere spiegata dai metodi standard della neuroscienza e dalla psicologia, alla posizione dei cosiddetti misteriani che affermano che non comprenderemo mai la coscienza. Io credo che attraverso un’analisi attenta entrambi questi punti di vista possono essere considerati come errati e che la verità sta da qualche parte nel mezzo. Contro il riduzionismo porterei l’argomento sugli strumenti della neuroscienza, i quali non possono fornire un resoconto completo dell’esperienza conscia, anche se hanno molto da offrire. Contro il misterianismo affermerò che la coscienza può essere spiegata da un nuovo tipo di teoria. I dettagli completi di tale teoria sono ancora fuori della nostra portata, ma un ragionamento attento e delle inferenze accurate possono svelare qualcosa della sua natura generale. Probabilmente questo richiederà nuove leggi fondamentali, ed il concetto di informazione potrebbe giocare un ruolo centrale. Questi deboli chiarori fanno presagire che una teoria della coscienza potrebbe avere delle conseguenze sensazionali per la nostra visione dell’universo e di noi stessi.

 

Il problema difficile.

I ricercatori usano la parola "coscienza" in tanti modi diversi. Per far luce su questi argomenti, prima dobbiamo separare i problemi che sono spesso raggruppati insieme sotto lo stesso nome. Per questo motivo, trovo utile distinguere tra i "problemi facili" ed il "problema difficile" della coscienza. I problemi facili non sono per niente banali – infatti sono una sfida come tante altre nella psicologia e nella biologia –ma è nel problema difficile che sta il mistero centrale.

I problemi facili della coscienza comprendono i seguenti: Come può un soggetto umano discriminare degli stimoli sensoriali e reagire a loro in modo appropriato? Com’è che il cervello integra le informazioni provenienti da tante fonti diverse ed usa queste informazioni per controllare il comportamento? Com’è che i soggetti possono verbalizzare i loro stati interni? Sebbene tutte queste domande siano associate alla coscienza, riguardano tutte i meccanismi oggettivi del sistema cognitivo. Di conseguenza abbiamo ragione ad aspettarci che un lavoro costante nella psicologia cognitiva e nelle neuroscienze risponderà ad esse.

Di contro, il problema difficile è la questione di come i processi fisici nel cervello diano luogo all’esperienza soggettiva. Quest’enigma coinvolge l’aspetto interiore del pensiero e della percezione: come il soggetto sente le cose. Quando vediamo, per esempio, proviamo delle sensazioni visive, come quella di un blu vivo. Oppure pensiamo al suono ineffabile di un oboe lontano, l’agonia di un dolore intenso, la scintilla della felicità o la qualità meditativa di un momento perso nel pensiero. Tutti fanno parte di quello che io sto chiamando la coscienza. E’ questo fenomeno che pone il vero mistero della mente.

  Una neuroscenziata isolata in una stanza bianca e nera sa tutto su come il cervello processa i colori, ma non sa come è la sensazione di vederli. Questo scenario ci fa pensare che la conoscenza del cervello non rende la conoscenza completa dell’esperienza conscia.

Per illustrare questa distinzione, considerate un esperimento mentale ingegnato da un filosofo australiano, Frank Jackson. Supponiamo che Mary, una neuroscienziata del XXIII secolo, sia la maggiore esperta mondiale sui processi cerebrali responsabili della visione a colori. Ma Mary ha vissuto tutta la sua vita in una stanza bianca e nera e non ha mai visto altri colori. Sa tutto quello che c’è da sapere sui processi fisici del cervello – la sua biologia, struttura e funzione. Questa conoscenza le permette di afferrare tutto quello che c’è da sapere sui problemi facili: come il cervello discrimina stimoli, integra informazioni e produce relazioni verbali. Attraverso la sua conoscenza della visione a colori, conosce il modo in cui i nomi dei colori corrispondono alle lunghezze d’onda lungo lo spettro della luce. Ma c’è ancora qualcosa di cruciale a proposito della visione a colori che l’Uomo non sa: in cosa consiste provare la sensazione di un co lore come il rosso. Segue che ci sono fatti sull’esperienza conscia che non possono essere dedotti dai fatti fisici sul funzionamento del cervello.

Infatti, nessuno sa perché questi processi fisici siano accompagnati dall’esperienza conscia. Perché quando il nostro cervello processa la luce di una certa lunghezza d’onda noi viviamo l’esperienza di un viola scuro? Perché viviamo qualsiasi esperienza? Non potrebbe un automa inconsapevole eseguire gli stessi compiti altrettanto bene? Per rispondere a queste domande avremmo bisogno di una teoria della coscienza.

Non nego che la coscienza si origini dal cervello. Sappiamo, per esempio, che l’esperienza soggettiva della visione è strettamente collegata ai processi nella corteccia visiva. Tuttavia è il collegamento stesso che ci rende perplessi. Sorprendentemente, l’esperienza soggettiva sembra emergere da un processo fisico. Ma non abbiamo nessuna idea di come o perché questo succeda.

 

Basta la Neuroscienza?

Dato il turbinio di lavori recenti sulla Coscienza nella neuroscienza e nella psicologia, si potrebbe pensare che questo mistero cominci a risolversi. Ma dopo un esame più accurato risulta che quasi tutto il lavoro corrente si occupa solamente dei problemi facili della coscienza. La sicurezza del punto di vista riduzionista viene dai progressi ottenuti sui problemi facili, ma tutto questo non fa alcuna differenza quando si tratta del problema difficile.

Considerate l’ipotesi avanzata dai neurobiologi Francis Crick del Salk Institute for Biological Studies in San Diego e Christof Koch del California Institute of Technology . Essi propongono che la coscienza potrebbe sorgere da certe oscillazioni nella corteccia cerebrale, che diventano sincronizzate mentre i neuroni sparano 40 volte al secondo. Crick e Koch credono che questo fenomeno potrebbe spiegare come i diversi attributi di un singolo oggetto percepito ( il suo colore e la sua forma, per esempio), i quali sono processati in diverse zone del cervello, si fondano in un insieme coerente. Secondo questa teoria, due pezzi d’informazione vengono legate insieme esattamente quando sono rappresentate da sparatorie neurali sincronizzate.

Teoricamente l’ipotesi potrebbe far luce su uno dei problemi facili, ossia di come l’informazione sia integrata nel cervello. Ma perché le oscillazioni sincronizzate dovrebbero dar luogo ad un’esperienza visiva, a prescindere da quanta integrazione è in atto? Questa domanda coinvolge il problema difficile, a proposito della quale la teoria non ha niente da offrire. Infatti, Crick e Koch sono agnostici sulla possibilità che il problema difficile possa essere risolto dalla scienza.

Lo stesso tipo di critica potrebbe essere esteso a quasi tutto il lavoro recente sulla coscienza. Nel suo libro del 1991 Consciousness Explained il filosofo Daniel C. Dennett ha elaborato una teoria sofisticata su come numerosi processi indipendenti nel cervello si combinano per produrre una risposta coerente verso un avvenimento percepito. La teoria potrebbe fare molto per spiegare come produciamo dei resoconti verbali sui nostri stati interni, ma ci dice molto poco sul perché ci dovrebbe essere un’esperienza soggettiva dietro questi resoconti. Come tutte le teorie riduzioniste, quella di Dennett è una teoria dei problemi facili.

Il tratto critico comune a tutti questi problemi facili è che tutti hanno a che fare con come la funzione cognitiva o comportamentale è eseguita. Alla fine sono tutte domande su come il cervello esegue dei compiti – come discrimina stimoli, integra informazioni, produce resoconti, etc.. Una volta specificati dalla neurobiologia i meccanismi neuronali adeguati, i quali dimostrano come le funzioni siano eseguite, vengono risolti i problemi facili. Il problema difficile della coscienza, in contrasto, va oltre i problemi di come le funzioni sono eseguite. Anche se ogni funzione comportamentale e cognitiva collegata alla coscienza fosse spiegata, ci rimarrebbe ancora un ulteriore mistero: perché l’esecuzione di queste funzioni è accompagnata dall’esperienza conscia? E’ questo enigma aggiuntivo che rende difficile il problema difficile.

 

La lacuna della spiegazione

Alcuni hanno proposto come risoluzione al problema difficile, l’introduzione di nuovi strumenti nella spiegazione fisica: dinamiche non lineari, diciamo, oppure nuove scoperte nella neuroscienza, oppure la meccanica quantistica. Ma queste idee presentano esattamente la stessa difficoltà. Considerate una proposta di Stuart R. Hameroff dell’Università dell’Arizona e Roger Penrose dell’Università di Oxford. Essi sostengono che la coscienza nasca da processi quantistici – fisici che hanno luogo nei microtuboli, (strutture proteiche presenti all’interno dei neuroni). E’ possibile (ma non probabile) che tale ipotesi porti ad una spiegazione di come il cervello prenda decisioni o addirittura come comprova dei teoremi matematici, come propongono Hameroff e Penrose. Ma anche se ciò succedesse, la teoria è muta su come questi processi potrebbero dare luogo a l’esperienza conscia. Infatti, lo stesso problema sorge con qualsiasi teoria della coscienza basata solamente sull’atto del processamento fisico.

Il guaio è che le teorie fisiche sono più adatte a spiegare perché i sistemi hanno una certa struttura fisica e come eseguono varie funzioni. La maggior parte dei problemi della scienza ha questa forma; per spiegare la vita, per esempio, dobbiamo descrivere come un sistema fisico possa riprodursi, adattarsi e metabolizzare. Ma la coscienza è un problema completamente diverso, siccome va oltre la spiegazione della struttura e della funzione.

Ovviamente, la neuroscienza non è irrilevante per lo studio della coscienza. Per primo, può essere in grado di svelare la natura della correlazione neurale della coscienza – i processi cerebrali più direttamente associati con l’esperienza conscia. Può addirittura dare una corrispondenza dettagliata tra i processi specifici nel cervello ed i componenti correlati dell’esperienza. Ma finché non sapremo perché questi processi diano luogo all’esperienza conscia, non avremo attraversato quello che il filosofo Joseph Levine ha chiamato la lacuna della spiegazione tra i processi fisici e la coscienza. Fare quel salto chiederà un nuovo tipo di teoria.

FLUSSO SANGUIGNO. Variazioni nella corteccia visiva dimostrano come il cervello di un soggetto risponde alla vista di un pattern. I colori in quest’immagine dimostrano l’attività corticale corrispondente alla visione del soggetto di ciascuna delle metà del pattern. Questa attività è una correlazione neurale dell’esperienza visiva, ma il rapporto tra i due rimane misterioso.

Una vera teoria del tutto

Alla ricerca di un’alternativa, un’osservazione chiave è che non tutte le entità nella scienza sono spiegate in termini di entità più basilari. Nella fisica, per esempio, spazio-tempo, massa e carica (tra altre cose) sono considerate come caratteristiche fondamentali del mondo, siccome non sono riducibili a niente di più semplice. Nonostante questa irriducibilità, teorie dettagliate e utili collegano queste entità una all’altra in termini di leggi fondamentali. Insieme queste caratteristiche e leggi spiegano una grande varietà di fenomeni complessi ed elusivi.

E’ largamente ritenuto che la fisica fornisce un catalogo completo delle caratteristiche e leggi fondamentali dell’Universo. Come spiega il fisico Steven Weinberg nel suo libro del 1992 Dreams of a Final Theory, l’obiettivo della fisica è una "teoria del tutto" dalla quale tutto quello che c’è da sapere dell’universo può essere derivato. Ma Weinberg concede che c’è un problema con la coscienza. Nonostante il potere della teoria fisica, l’esistenza della coscienza non sembra derivabile da leggi fisiche. Lui difende la fisica costatando che essa potrebbe alla fine spiegare quello che lui chiama le correlazioni oggettive della coscienza (cioè le correlazioni neurali), ma ovviamente fare questo non significa spiegare la coscienza stessa. Se l’esistenza della coscienza non può essere derivata da leggi fisiche, una teoria della fisica non è una vera teoria del tutto. Quindi una teoria finale dovrebbe contenere una componente aggiuntiva fondamentale.

Verso questo fine, io propongo che l’esperienza conscia venga considerata come una caratteristica fondamentale, irriducibile a qualsiasi cosa più basilare. Questa idea potrebbe sembrare strana all’inizio, ma la coerenza sembra richiederlo. Nel IX secolo si è verificato che i fenomeni elettromagnetici non potevano essere spiegati in termini di principi precedentemente conosciuti. Come conseguenza, gli scienziati introdussero la carica elettromagnetica come una nuova entità fondamentale e studiarono le leggi fondamentali associate. Si dovrebbe applicare un ragionamento simile alla coscienza. Se le teorie fondamentali esistenti non riescono a racchiuderla, allora qualcosa di nuovo è necessario.

Dove c’è una proprietà fondamentale, ci sono leggi fondamentali. In questo caso le leggi devono raccordare l’esperienza agli elementi della teoria fisica. Queste leggi quasi sicuramente non interferiranno con quelle del mondo fisico; sembra che le ultime formano un sistema chiuso a se stante. Piuttosto le leggi serviranno come un ponte, specificando come l’esperienza dipenda dai processi fisici sottostanti. E’ questo ponte che colmerà la lacuna della spiegazione.

Quindi, una teoria completa avrà due componenti: leggi fisiche che ci informano del comportamento dei sistemi fisici dal infinitesimo al cosmologico, e quello che potremo chiamare le leggi psicofisiche, che ci informano come alcuni di questi sistemi sono associati con l’esperienza conscia. Queste due componenti costituiranno una vera teoria del tutto.

 

Alla ricerca di una teoria

Supponiamo per un momento che esistono, come potremo scoprire le leggi psicofisiche? Il maggiore ostacolo in questo inseguimento sarà una mancanza di dati. Come l’ho descritta, la coscienza è soggettiva, così non c’è nessun modo diretto per monitorarla negli altri. Ma questa difficoltà è solo un ostacolo, non un vicolo cieco. Per cominciare, ognuno di noi ha l’accesso alle proprie esperienze, un ricco tesoro che può essere usato per formulare delle teorie. Possiamo anche, plausibilmente, fidarci delle informazioni indirette, come le descrizioni dei soggetti delle loro esperienze. Argomenti filosofici ed esperimenti sul pensiero hanno anche un ruolo da giocare. Tali metodi hanno dei limiti, ma sono più che sufficienti per iniziare.

Queste teorie non saranno conclusivamente testabili, quindi saranno inevitabilmente più speculative di quelle delle discipline scientifiche più convenzionali. Ciononostante, non c’è nessun motivo perché esse non possano essere fortemente costrette a dar accuratamente conto delle nostre esperienze vissute in prima persona, oltre alle evidenze tratte dai resoconti dei soggetti. Se troviamo una teoria che si addice ai dati meglio di qualsiasi altra teoria di pari semplicità, avremmo buone ragioni per accettarla. In questo momento non abbiamo neanche una singola teoria che si addica ai dati, quindi preoccupazioni sulla testabilità sono premature.

Potremo cominciare guardando le leggi d’unione di alto livello, collegando i processi fisici all’esperienza quotidiana. Il contorno basilare di tale legge potrebbe essere raccolto dall’osservazione che quando noi siamo consci di qualcosa, siamo generalmente in grado di reagire ad essa e parlarne – queste sono delle funzioni oggettive e fisiche. Viceversa quando delle informazioni sono direttamente disponibili, per le azioni e i discorsi, sono generalmente consce Dunque, la coscienza correlaziona bene con quello che potremo definire la "consapevolezza": il processo attraverso il quale le informazioni nel cervello sono rese globalmente disponibili ai processi motori come il discorso e l’azione corporea.

Questa nozione potrebbe sembrare banale. Ma come viene definita qua, la consapevolezza è oggettiva e fisica, mentre la coscienza no. Alcuni affinamenti alla definizione della consapevolezza sono necessari, per estendere il concetto agli animali e neonati, che non possono parlare. Ma almeno in casi famigliari, è possibile vedere i contorni abbozzati di una legge psicofisica: dove c’è consapevolezza, c’è coscienza, e viceversa.

Per portare questa linea di ragionamento un passo più avanti, considerate la struttura presente nell’esperienza conscia. L’esperienza di un campo visivo, per esempio, è un mosaico di colori, forme e patterns che cambiano costantemente e come tali hanno una struttura geometrica dettagliata. Il fatto che possiamo descrivere questa struttura, estenderci nella direzione di tanti dei suoi componenti ed eseguire altre azioni che dipendono da essa indica che la struttura corrisponde direttamente a quella delle informazioni rese disponibili nel cervello attraverso i processi neurali della consapevolezza.

LA RUOTA DEI COLORI dispone le tonalità in modo che quelle esperite come simili sono le più vicine. I colori vicini corrispondono anche alle rappresentazioni percettive nel cervello.

Similmente, le nostre esperienze del colore hanno una struttura intrinseca tridimensionale che è rispecchiata nella struttura dei processi informativi nella corteccia visiva del cervello. Questa struttura è illustrata nelle ruote e nei diagrammi dei colori usati dagli artisti. I colori sono disposti in un pattern sistematico – dal rosso al verde su un asse, dal blu al giallo su un altro, e dal nero al bianco sul terzo. I colori che sono più vicini uno all’altro su una ruota dei colori sono esperiti come simili. E’ estremamente probabile che corrispondano anche a rappresentazioni percettive simili nel cervello, come parte di un sistema di codificazione tridimensionale complesso tra i neuroni che non è stato ancora completamente capito. Possiamo rimaneggiare il concetto sottostante come un principio della coerenza strutturale: la struttura dell’esperienza conscia è rispecchiata dalla struttura dell’informazione nella consapevolezza, e viceversa.

Un altro candidato per una legge psicofisica è un principio di invarianza organizzazionale. Ritiene che i sistemi fisici con la stessa organizzazione astratta daranno luogo allo stesso tipo di esperienza conscia, a prescindere da che cosa sono fatti. Per esempio, se le interazioni precise tra i nostri neuroni potessero essere duplicate con chip di silicone, la stessa esperienza conscia avrebbe luogo. L’idea è assai controversa, ma io credo che è fortemente sostenuta dagli esperimenti sul pensiero che descrivono la sostituzione graduale dei neuroni con chip di silicone. L’implicazione incredibile è che la coscienza potrebbe un giorno emergere anche nelle macchine.

 

Informazione: fisica ed esperienziale.

L’ultima meta di una teoria della coscienza è un insieme semplice ed elegante di leggi fondamentali, analoghe alle leggi fondamentali della fisica. Comunque, i principi descritti sopra sono inverosimilmente fondamentali. Piuttosto sembra che siano delle leggi psicofisiche di alto livello, analoghe ai principi macroscopici della fisica come quelli della termodinamica o la cinematica. Quali potrebbero essere le leggi fondamentali sottostanti? Nessuno lo sa, ma a me non dispiace speculare.

Io propongo che le leggi psicofisiche primarie possono coinvolgere centralmente il concetto di informazione. La nozione astratta d’informazione così come avanzata negli anni ’40 da Claude E. Shannon del Massachusetts Institute of Technology, è quella di un insieme di stati separati con una struttura basilare di similarità e di differenze. Possiamo pensare ad un codice binario di 10- bit come ad uno stato d’informazione, per esempio. Tali stati d’informazione possono essere incorporati nel mondo fisico. Questo succede tutte le volte che essi corrispondono agli stati fisici (voltaggi ad esempio), le differenze tra i quali possono essere trasmesse lungo qualche via, come una linea telefonica.

Noi possiamo anche trovare delle informazioni incorporate nell’esperienza conscia. Il pattern di macchie di colore in un campo visivo, per esempio, può essere visto come analogo a quello dei pixel che coprono il display di uno schermo. Intrigantemente, capita che troviamo gli stessi stati d’informazione conficcati nell’esperienza conscia e nei processi fisici sottostanti nel cervello. La codificazione tridimensionale degli spazi di colore, per esempio, suggerisce che lo stato d’informazione in una esperienza di colore corrisponde direttamente ad uno stato d’informazione nel cervello. Potremo addirittura considerare i due stati come aspetti distinti di un singolo stato d’informazione, che è simultaneamente incorporato sia nel processamento fisico sia nell’esperienza conscia.

Segue l’ipotesi naturale. Alcune informazioni hanno due aspetti di base: uno fisico e uno esperienziale. L’ipotesi ha lo status di un principio fondamentale che potrebbe essere alla base della relazione tra processi fisici e l’esperienza. Ovunque troviamo l’esperienza conscia, essa esiste come un aspetto dello stato d’informazione, mentre l’altro aspetto è incorporato in un processo fisico nel cervello. Questa proposta deve essere ampliata per farne una teoria soddisfacente. Ma si addice bene ai principi nominati prima – sistemi con la stessa organizzazione incorporeranno la stessa informazione, per esempio – e potrebbe spiegare numerosi aspetti della nostra esperienza conscia.

L’idea è almeno compatibile con parecchie altre, come la proposta del fisico John A. Wheeler che l’informazione è fondamentale alla fisica dell’universo. Le leggi della fisica alla fine potrebbero essere messe in termini informazionali, e in quel caso avremo una congruenza soddisfacente tra i costrutti sia delle leggi fisiche sia delle leggi psicofisiche. Potrebbe anche darsi che una teoria della fisica e una teoria della coscienza potrebbero alla fine essere consolidate in una singola teoria più grande dell’informazione.

Un problema potenziale è posto dall’ubiquità dell’informazione. Anche un termostato incorpora qualche informazione, per esempio, ma è conscio? Ci sono almeno due risposte possibili. Primo, potremmo costringere le leggi fondamentali in modo tale che soltanto alcune informazioni abbiano un aspetto esperienziale, forse dipendendo da come sono processate fisicamente. Secondo, potremmo ingoiare il rospo e ammettere che tutte le informazioni hanno un aspetto esperienziale – dove c’è un processamento complesso dell’informazione, c’è una esperienza complessa, e dove c’è un processamento semplice dell’informazione, c’è un’esperienza semplice. Se è così, allora anche un termostato potrebbe avere delle esperienze, sebbene sarebbero ancora più semplici di una esperienza basilare di colore, e certamente non ci sarebbero delle emozioni o pensieri correlati. Questo potrebbe sembrare strano all’inizio, ma se l’esperienza è veramente fondamentale, potremmo aspettarci che sia largamente diffusa. In ogni caso, la scelta tra queste alternative dovrebbe dipendere da quale può essere integrata nella teoria più potente.

Naturalmente, tali idee potrebbero essere tutte sbagliate. D’altro canto, potrebbero evolversi in una proposta più potente che predice la struttura precisa della nostra esperienza conscia dai processi fisici nei nostri cervelli. Se questo progetto riuscirà, avremo buon motivo per accettare la teoria. Se fallirà, altre strade saranno battute, e teorie fondamentali alternative potrebbero essere sviluppate. In questo modo, potremmo un giorno risolvere il più grande mistero della mente.


Qualia danzanti in un cervello sintetico

Può la coscienza sorgere in un sistema sintetico complesso? Questa è una domanda che molte persone trovano intrinsecamente affascinante. Sebbene possano passare decenni o addirittura secoli prima che un tale sistema venga costruito, un semplice esperimento del pensiero offre forti evidenze che un cervello artificiale, se organizzato appropriatamente, avrebbe, infatti, precisamente lo stesso tipo di esperienze consce di un essere umano.

Considerate un sistema a base di silicio nel quale i chip sono organizzati e funzionano nello stesso modo dei neuroni nel vostro cervello. Cioè ogni chip nel sistema al silicone farà esattamente quello che fa il suo analogo naturale ed è interconnesso agli elementi che lo circondano nello stesso preciso modo. Quindi, il comportamento esibito dal sistema artificiale sarà esattamente lo stesso del vostro. La domanda cruciale è: sarà conscio nello stesso vostro modo?

Supponiamo, a scopo argomentativo, che non lo sia. (Qui viene adottata una tecnica di ragionamento conosciuta come reductio ad absurdum, nella quale si presume l’ipotesi contraria per poi mostrare che porta ad una conclusione insostenibile.) Cioè o ha delle esperienze diverse – una esperienza del blu, per esempio, quando voi vedete rosso – o non ha nessuna esperienza. Considereremo il primo caso; il ragionamento procede in modo simile in entrambi i casi.

Dato che i chips ed i neuroni hanno la stessa funzione sono intercambiabili con l’interfacciamento adatto. Dunque i chip possono sostituire i neuroni, producendo un continuum di casi nei quali una proporzione sempre maggiore di neuroni sono sostituiti dai chip. Lungo questo continuum, anche l’esperienza conscia del sistema cambierà. Per esempio, potremmo sostituire tutti i neuroni nella vostra corteccia visiva con una versione organizzata identicamente fatta di silicone. Il cervello risultante, con una corteccia visiva artificiale, avrà una esperienza conscia diversa dall’originale: dove prima vedevate il rosso, ora potreste esperire il viola (o forse un rosa pallido, nel caso che il sistema completamento di silicone non abbia nessuna esperienza precedente).

Entrambe le cortecce visive sono successivamente attaccate al vostro cervello, attraverso un interruttore a doppia posizione. Con l’interruttore in un modo, usate la corteccia visiva naturale; nell’altra, la corteccia artificiale è attivata. Quando l’interruttore è azionato, la vostra esperienza cambia dal rosso al viola o viceversa. Quando l’interruttore è azionato ripetutamente, la vostra esperienza ‘danza’ tra i due stati consci diversi (rosso e viola), conosciuti come qualia.

Dato che l’organizzazione del vostro cervello non è cambiata, comunque, non ci può essere un cambiamento comportamentale quando l’interruttore è azionato. Dunque, quando vi viene chiesto che cosa vedete, direte che niente è cambiato. Riterrete di vedere il rosso e che non avete visto niente altro che il rosso, anche se i due colori stanno danzando davanti ai vostri occhi. Questa conclusione è così irragionevole che è meglio prenderla come un reductio ad absurdum della supposizione originale – che un sistema artificiale con una organizzazione e funzionamento identico ha una esperienza conscia diversa da quella di un cervello neurale. Ritrattazione della suddetta supposizione afferma l’opposto: che sistemi con la stessa organizzazione hanno la stessa esperienza conscia. – D.J.C.


Perché la neuroscienza potrebbe essere in grado di spiegare la coscienza.

by Francis Crick and Christof Koch

Noi crediamo che in questo momento il migliore approccio al problema della spiegazione della coscienza sia quello di concentrarci sul trovare i cosiddetti correlati neurali della coscienza – i processi nel cervello che sono i più direttamente responsabili della coscienza. Localizzando i neuroni nella corteccia cerebrale che correlano meglio con la coscienza, e capendo come questi si collegano ai neuroni altrove nel cervello, potremmo imbatterci in intuizioni chiave su quello che David J. Chalmers chiama il problema difficile: un resoconto completo della maniera in cui l’esperienza soggettiva sorge da questi processi cerebrali.

Noi elogiamo Chalmers per il fatto di aver coraggiosamente riconosciuto e focalizzato il problema difficile sebbene non siamo così entusiasti riguardo ad alcuni suoi esperimenti del pensiero. Come lo vediamo noi, il problema difficile può essere suddiviso in diverse domande: Perché esperiamo qualsiasi cosa? Che cosa porta ad una esperienza conscia particolare (tipo la sensazione blu del blu)?Perché alcuni aspetti dell’esperienza soggettiva sono impossibili da trasmettere agli altri (in altre parole, perché sono privati)? Noi crediamo di avere una risposta a quest’ultimo problema e una proposta per quanto riguarda i primi due, ruotando intorno ad un fenomeno conosciuto come la rappresentazione neuronale esplicita.

Che cosa significa ‘esplicita’ in questo contesto? Forse il modo migliore per definirla è con un esempio. Come risposta all’immagine di una faccia, per esempio, le cellule gangliari sparano su tutta la retina, in modo molto simile a quanto succede ai pixel sullo schermo televisivo, per generare una rappresentazione implicita della faccia. Al contempo, possono anche rispondere a tante altre caratteristiche dell’immagine, come ombre, linee, illuminazione irregolare eccetera. Al contrario alcuni neuroni che occupano una posizione alta nella gerarchia della corteccia visiva rispondono principalmente alla faccia, o addirittura alla faccia vista da un’angolazione particolare. Tali neuroni aiutano il cervello a rappresentare la faccia in modo esplicito. La loro perdita dopo un ictus o qualche altro incidente, porta alla prosopagnosia, l’incapacità di un individuo a riconoscere facce familiari, consciamente – addirittura la sua stessa, sebbene la persona può ancora identificare una faccia come una faccia. Similmente, danni ad altre parti della corteccia visiva possono causare la perdita della capacità di esperire il colore, mentre si vede ancora in tonalità di bianco e nero, anche se non c’è nessun difetto nei recettori del colore nell’occhio.

KANIZSA TRIANGLE stimola i neuroni che codificano esplicitamente per tali contorni illusori.

Ad ogni stadio, l’informazione visiva è ricodificata, tipicamente in un modo semi gerarchico. Le cellule gangliari della retina rispondono a zone di luce. I neuroni nella corteccia visiva primaria sono i più abili a rispondere a linee e bordi; i neuroni più alti nella gerarchia potrebbero preferire un contorno in movimento. Ad un livello ancora più alto ci sono quelli che rispondono alle facce ed ad altri oggetti familiari. In cima ci sono quelli che proiettano alle strutture premotorie e motorie nel cervello, dove sparano i neuroni che danno inizio ad azioni come il parlare o l’evitare un'automobile che viene addosso.

Chalmers crede, come noi, che l’aspetto soggettivo di una esperienza deve attenersi strettamente alla sparatoria dei neuroni corrispondente a quegli aspetti (i correlati neurali). Egli descrive un esperimento del pensiero molto conosciuto, costruito intorno ad una neuroscienzata ipotetica, Mary, che è specializzata nella percezione dei colori ma non ne ha mai visto uno. Noi crediamo, comunque, che il motivo per cui Mary non sa come è vedere un colore sta nel fatto che lei non ha mai avuto una rappresentazione neurale esplicita di un colore nel suo cervello, ma soltanto le parole e le idee associate ai colori.

Per descrivere una esperienza visiva soggettiva, l’informazione deve essere trasmessa allo stadio motorio dell’output del cervello, dove diventa disponibile per la verbalizzazione o altre azioni. Questa trasmissione coinvolge sempre la ricodificazione dell’informazione, in modo che l’informazione esplicita espressa dai neuroni motori sia collegata, ma non identica, all’informazione esplicita espressa dai neuroni associati all’esperienza di colore, a qualche livello nella gerarchia visiva.

Non è possibile, allora, trasmettere con parole e idee la natura esatta di una esperienza soggettiva. E’ possibile, però, trasmettere una differenza tra esperienze soggettive – per distinguere tra il rosso e l’arancione, per esempio. Questo è possibile perché una differenza nella zona corticale visiva ad alto livello sarà ancora associata con una differenza negli stadi motori. L’implicazione è che non potremo mai spiegare agli altri la natura di una esperienza conscia, ma soltanto la sua relazione alle altre.

Le altre due domande, che chiedono perché abbiamo delle esperienze consce e che cosa porta a delle esperienze specifiche, appaiono più difficili. Chalmers propone che esse richiedono l’introduzione dell’‘esperienza’ come una nuova caratteristica fondamentale del mondo, relativa all’abilità di un organismo di processare delle informazioni. Ma quali tipi d’informazione neuronale producono la coscienza? E che cosa fa che un certo tipo d’informazione corrisponda alla sensazione blu del blu, piuttosto che alla sensazione verde del verde? Tali problemi sembrano tra i più difficili nello studio della coscienza.

Noi preferiamo un approccio alternativo, coinvolgente il concetto di ‘significato’. In che senso possono i neuroni che codificano esplicitamente per una faccia essere considerati responsabili della trasmissione del significato di una faccia al resto del cervello? Tale proprietà deve mettere in relazione al campo proiettivo della cellula un pattern di connessioni sinaptiche ai neuroni che codificano esplicitamente per i concetti collegati. Infine, queste connessioni si estendono al output motorio. Per esempio, i neuroni che rispondono ad una certa faccia potrebbero essere connessi ad altri che esprimono il nome della persona che ha quella faccia e ancora ad altri per la sua voce, ricordi che la coinvolgono e via di seguito. Tali associazioni tra i neuroni devono essere comportamentalmente utili, in altre parole, coerenti col feedback dal corpo e dal mondo esterno.

Il significato deriva dai collegamenti tra queste rappresentazioni con le altre diffuse per tutto il sistema corticale in una vasta rete associativa, simile ad un vocabolario o ad un database relazionale. Più sono diverse queste connessioni, più ricco è il significato. Se, come nel nostro esempio precedente della prosopagnosia, l’output sinaptico di tali neuroni facciali era bloccato, le cellule risponderebbero ancora alla faccia della persona, ma non ci sarebbe un significato associativo e, quindi, molto meno esperienza. Una faccia sarebbe vista ma non riconosciuta come tale.

Ovviamente, gruppi di neuroni possono assumere nuove funzioni, permettendo ai cervelli d’imparare delle nuove categorie (comprese le facce) e associare le nuove categorie con quelle già esistenti. Certe associazioni primitive, come il dolore, sono fino ad un certo punto innate, ma successivamente raffinate nel corso della vita.

L’informazione può essere veramente il concetto chiave, come sospetta Chalmers. Più certezza richiederà una considerazione di flussi altamente paralleli d’informazioni, collegati – come lo sono i neuroni – in reti complesse. Sarebbe utile cercare di determinare che caratteristiche una rete neurale (o qualche altra realizzazione computazionale)deve avere per generare significato. E’ possibile che tali pratiche suggeriranno la base neurale del significato. Il problema difficile della coscienza può allora apparire in una luce completamente nuova. Potrebbe addirittura sparire.


L’autore

David J. Chalmers ha studiato matematica all’Adelaide University e come un Rhodes Scholar all’University of Oxford, ma un’attrazione per la coscienza lo ha portato ad interessarsi alla filosofia e alle scienze cognitive. Ha un Ph.D. in questi campi dall’Indiana University ed attualmente lavora nel dipartimento di filosofia all’University of California, Santa Cruz. Chalmers ha pubblicato numerosi articoli sull’intelligenza artificiale e la filosofia della mente. Il suo libro The Conscious Mind, che elabora tante delle idee presenti in quest’articolo, sarà pubblicato dall’Oxford University Press.


Further Reading

Absent Qualia, Fading Qualia, Dancing Qualia. David J. Chalmers in Conscious Experience. Edited by Thomas Metzinger. Ferdinand Schoningh,1995.

Explaining Consciousness: The Hard Problem. Special issue of Journal of Consciousness Studies, Vol. 2, No. 3; Autumn 1995.

The Nature of Consciousness: Philosophical and Scientific Debates. Edited by Ned Block, Owen Flanagan and Güven Güzeldere. MIT Press (in press).