Università degli Studi di Torino
Facoltà di Psicologia


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Tesi di laurea


Claudia Abbrugiati

Riconoscimento e gestione dello stress nelle missioni di pace all'estero

 

 

 

Il filo conduttore del presente lavoro è un viaggio intrapreso all’interno del concetto di stress ed, in particolare, un percorso riguardante la prevenzione, il riconoscimento e la gestione  di detto fenomeno in un contesto così particolare quali le missioni di pace all’estero.

 

 

 

Negli ultimi dieci anni i militari italiani sono stati impegnati in un numero sempre crescente di interventi e missioni “fuori area”.

In Kurdistan, Somalia, Mozambico, Albania, Bosnia, Croazia, Timor, Kosovo, ma anche in Libano, Cisgiordania, Sinai, Guatemala, Cambogia, Kuwait, Pakistan, Sahara Occidentale, Afghanistan, Iraq i militari italiani hanno partecipato ad operazioni multinazionali gestite dall’ONU o dalla NATO.

Le missioni internazionali di pace all’estero sono dunque una realtà sempre più vasta e diffusa, destinata a crescere nel tempo.

Esse vedono impegnati 9.500 militari italiani, uomini e donne:  un numero inferiore solo a quello delle Forze Armate  statunitensi, britanniche e francesi.

 

 

 

In anni antecedenti all’apertura per le donne del mondo militare ho avuto l’onore e l’onere di partecipare, in qualità di Infermiera Volontaria della Croce Rossa Italiana,

 alla missione internazionale di pace “Temporary International Presence in the City of Hebron” (TIPH).

In Cisgiordania, per la prima volta, il Corpo delle Infermiere Volontarie viene impiegato in un’attività che esula dall’ambito strettamente sanitario.

Avvicendandosi in turni di sei mesi, due Infermiere Volontarie operano con il contingente italiano composto da trenta Carabinieri, accanto a personale civile e militare proveniente da Norvegia, Svezia, Danimarca, Svizzera e Turchia.

In questa missione l’Infermiera Volontaria è una donna che svolge l’attività di “Osservatore TIPH”, all’interno di un gruppo multinazionale, e dalla quale ci si attende comportamenti, reazioni ed atteggiamenti consoni ed adeguati alla situazione.

 

 

 

L’impegno e la salvaguardia di coloro che partecipano alle missioni di pace non può più essere tutelato esclusivamente tramite la valutazione degli aspetti logistici, amministrativi, giuridici ed economici.

Qualcosa di ugualmente importante e vitale va osservato e monitorato attentamente per la riuscita di queste operazioni: il benessere bio-psico-sociale degli individui coinvolti.

La scelta di organizzare un Servizio di Supporto Psicologico è di fondamentale importanza in una situazione di forte impegno fisico ed emotivo, in condizioni di vita fortemente disagiate e caratterizzate da relazioni interpersonali assai particolari.

L’impiego di personale con specifica formazione nel campo dell’aiuto e del sostegno psicologico pone inoltre le Forze Armate italiane in linea con gli indirizzi seguiti dalla maggior parte dei Paesi con lunga esperienza di permanenza all’estero.

E’ evidente che un reale intervento psicologico deve prevedere un simultaneo impegno in ambito sociale.

Di fatto la prevenzione del disagio bio-psico-sociale non può non essere patrimonio della collettività nel suo insieme, divenendo competenza prevalentemente della sfera politico-sociale e basandosi sul singolo individuo quale membro della collettività.

In sintesi possiamo affermare che la presa in carico psicologica, in patria come nelle operazioni fuori area, vada intesa come un intervento atto a superare l’aspetto meramente clinico-diagnostico per indirizzarsi verso una cultura che consenta una progressiva emancipazione da ansie e timori che nuove situazioni sociali, ambientali o psicologiche possono creare.

In un simile contesto l’intera collettività, e non il singolo componente, agirebbe positivamente favorendo una situazione di “benessere emotivo”.

Tale azione si concretizza attraverso la protezione e la promozione della salute, migliorando la qualità della comunicazione e delle relazioni umane, stimolando stili di vita autoprotettivi, favorendo l’elaborazione dell’emotività nei momenti di crisi, sviluppando ed incoraggiando le personali capacità di problem solving.

 

 

 

Le operazioni di Peacekeeping rappresentano momenti a risonanza emotiva anche molto elevata e risultano essere, pertanto, dense di fattori di rischio per la comparsa di reazioni psicologiche, che vanno da un transitorio disagio alla psicopatologia conclamata.

E’ dunque necessario distinguere quelle risposte che rappresentano una reazione fisiologica e normale alle situazioni di stress da quelle che appaiono invece come reazioni conclamatamene patologiche.

In uno scenario quale quello attuale le reazioni patologiche allo stress, ed in particolare il disturbo post-traumatico da stress, si prevede possa divenire di sempre maggiore osservazione nel personale militare ed ausiliario impegnato in teatri operativi “fuori area”.

Da ciò si evince che una Forza Armata non possa più limitarsi a basare la propria capacità operativa esclusivamente sull’equipaggiamento, ma dovrà puntare sull’addestramento del personale e sull’abilità di osservare e promuovere la salute dei propri Uomini.

Risulta pertanto fondamentale un impegno rivolto ad un’accurata selezione del personale da impiegare in tali contesti al fine di evidenziare eventuali profili psicopatologici a rischio.

Si ritiene inoltre altrettanto basilare un accurato monitoraggio del personale già impiegato in queste operazioni, al fine di poter intervenire tempestivamente qualora si manifestasse in loro un disagio psichico di qualsiasi natura.

La patologia psichiatrica post-traumatica può infatti esordire o rendersi evidente anche dopo anni dall’evento, dopo un lungo periodo di apparente benessere.

 

 

 

Questo in ottemperanza al concetto di “Comunity Care”, espresso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con il quale si intende un’attività codificata consistente nella promozione e protezione della salute, nella ricerca dei fattori di rischio per l’integrità mentale e nell’individuazione delle corrette strategie di intervento nella prevenzione del disadattamento e delle sue manifestazioni clinico-comportamentali.

 

 

 

Tutto ciò risulta di fondamentale importanza affinché non siano gli operatori stessi a trasformarsi in “vittime” di queste nuove realtà. Affinché gli eventi e le loro conseguenze non minino quel rispetto “dell’essere uomo” che rende ciascuno di noi unico ed irripetibile.

 

 

 

L’impostazione della presente trattazione è stata ideata in modo stratificato.

La prima parte ha una funzione introduttiva e di contestualizzazione della successiva esposizione.

L’elaborato ha inizio con una breve rassegna concernente la nozione di stress, dall’origine del termine al significato che tale concetto ha assunto ai giorni nostri.

Si passa successivamente alla disamina delle principali tipologie di stress inerenti il tema in oggetto, con particolare riferimento allo stress lavorativo, allo stress provocato da eventi catastrofici o da gravi traumi ed al drammaticamente attuale stress provocato da attacchi terroristici.

Un breve accenno è dedicato alle conseguenze dello stress sul sistema immunitario.

Viene esaminato in seguito il concetto di evoluzione dello stress e delle sue manifestazioni cliniche, percorrendo un continuum che muove i suoi passi dalle risposte fisiologiche nei confronti di uno stress traumatico al disturbo post-traumatico da stress, passando attraverso le reazioni acute da stress e le più svariate risposte patologiche conosciute, tra cui il disturbo acuto da stress.

Vengono progressivamente e rapidamente descritte le principali tipologie di azioni fuori area, le funzioni delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza ed il ruolo dell’osservatore all’interno di tale scenario, prendendo in particolare considerazione la personale ed unica modalità di approccio e di atteggiamento psicologico e comportamentale di ciascun osservatore nei confronti delle missioni di pace.

 

 

 

La seconda parte del lavoro corrisponde ad un ulteriore livello di analisi, il cui tentativo è quello di avvicinarsi maggiormente all’oggetto di studio.

Vengono analizzate nel dettaglio le fasi del “ciclo emotivo dell’incarico” da un duplice punto di vista: nella prospettiva di chi parte effettivamente per l’estero e nell’ottica di chi compie lo stesso viaggio, ma rimanendo ancorato alle “mura domestiche”.

Vengono inoltre esaminate le risposte fisiologiche e patologiche allo “stress da incarico”, i segni premonitori, i fattori che riducono il rischio che ciò si verifichi ed il come agire se detti sintomi si presentano.

Si prosegue con una trattazione concernente gli interventi pratici e concreti che possono essere messi in atto nel contesto delle missioni fuori area.

Molta attenzione è stata dedicata alle misure preventive, con particolare riferimento alla formazione degli operatori che si troveranno ad agire direttamente sul campo.

Sono state inoltre considerate le modalità e le proposte operative, prime tra tutte la prevenzione ed il sostegno sociale.

Si è tentato pertanto di fornire risposte, seppur parziali e limitate, a quesiti quali:

“Come agire nell’interesse degli operatori di pace affinché corrano un minor rischio di essere coinvolti in disturbi che li rendano a loro volta vittime dell’evento?”

“Come può l’operatore preservare la propria incolumità psicofisica e continuare ad assolvere al proprio compito?”

“Come può lo stress rimanere tale senza sfociare in un disturbo post-traumatico da stress?”.

 

 

 

Il lavoro termina con un resoconto della mia personale esperienza all’interno del contesto descritto e con un confronto tra quanto esposto precedentemente a livello teorico e ciò che è la realtà quotidiana del territorio, presso il teatro stesso delle operazioni.

 

 

 

Questo lavoro per sconfiggere l’indifferenza.

Questo lavoro per dimostrare che molto è stato fatto, ma che altrettante strade rimangono ancora da percorrere.

Questo lavoro per accogliere il limite insito in ciascuno di noi come essere umano, per avere la forza di sostare nell’incertezza ed apprendere da essa, per imparare a tollerare la “nebbia dell’ignoto” ed accettare l’etica di una risposta senza fine.

Questo lavoro per enfatizzare il rispetto “dell’uomo per l’essere uomo”.

Dedicato ai professionisti, affinché sappiano con competenza, partecipazione emotiva e rispetto prendere parte alle vicende di chi ha subito una situazione traumatica o fortemente stressante; affinché siano in grado di intervenire in maniera consona ed adeguata nelle circostanze più delicate, con serietà e professionalità; affinché possano essere di supporto a quegli individui che molto hanno da dire e da raccontare.

Agli osservatori di pace, affinché sappiano di non essere soli; affinché partano consci del fatto di correre dei rischi che non concernono esclusivamente la loro integrità fisica; affinché siano consapevoli che rabbia, dolore, frustrazione e senso di impotenza sono sentimenti comuni alla maggior parte dei loro colleghi; affinché possano attribuire i propri stati d’animo, atteggiamenti, impressioni e sensazioni percepite ed agite prima, durante e dopo la loro partenza ad un percorso fisiologico naturale che deve necessariamente seguire il suo corso e le cui tappe non possono essere eluse; affinché possano sentirsi parte integrante di una comunità e piccoli ma fondamentali tasselli di un’imponente ed umana rete sociale.

 

 

Affinché coloro che accettano di correre tali e tanti rischi possiedano il “bagaglio” necessario per vivere al meglio questa indimenticabile e meravigliosa esperienza.

 

  

 Veduta di Hebron all'alba

  

Moschea di Abramo nella quale il setter ebreo Baruch Goldstein uccise 29 palestinesi in preghiera nel 1994 

 

Osservatore TIPH segue un incidente

 

 Medico TIPH assiste una partoriente durante il coprifuoco