Appunti sui progressi delle neuroscienze:
la psicoanalisi oggi …

Last Update on lunedì aprile 13, 2015


Ho tenuto questo seminario al Centro Torinese di Psicoanalisi il 27 novembre 2000, in occasione dell’inaugurazione della nuova sede del Centro stesso. Si tratta di un testo estemporaneo, preparato sulla scorta di alcune lezioni che avevo tenuto per il corso di Psicosomatica alla Facoltà di Psicologia (nell’anno accademico 2000-2001) ed elaborato in collaborazione con la dr.ssa Beatrice Cannella.

Il testo qui pubblicato è la trascrizione fedele (con minime correzioni) della sbobinatura del mio intervento, merito anche questo di Beatrice Cannella, che ovviamente ringrazio.

Rileggendolo, in occasione della pubblicazione su Internet, mi sono accorto di quanto le cose, in pochi mesi, andrebbero già riformulate in modo diverso e di come una trattazione a voce, per giunta vincolata ad una predestinata durata di tempo, finisca per essere superficiale ed imprecisa …


 

Premessa.

Sono colpito ed emozionato della singolare coincidenza della mia lettura di questa sera …
Il contesto un po' di festa - la prima volta in cui c'è un incontro ufficiale nella nostra nuova sede, addirittura con il computer sul tavolo, insomma questo sapore di novità – si intona bene con quello che volevo raccontarvi, che è essenzialmente un pezzetto della mia storia personale: perché voglio in qualche modo parteciparvi di due eventi che mi sono accaduti recentissimamente e che sono entrambi belli.
Uno è che mi sono successe delle cose per cui sono riuscito a rimettere insieme dei pezzi della mia carriera professionale e soprattutto della mia carriera culturale.
E la seconda è che, facendo quest’operazione, mi sono entusiasmato accorgendomi di una cosa che probabilmente voi tutti ben sapete - ma che io ho scoperto pian piano - e cioè che il discorso delle neuroscienze, negli ultimi due o tre anni, ha rifondato enormemente la necessità e le basi teoriche del discorso psicoanalitico, e del discorso Bioniano in particolare.

I miei pezzi, vi dicevo: vedete, trent'anni fa mi occupavo di neuroscienze. Ho cominciato la mia carriera professionale facendo il neurochimico e lavorando con metodi messi a punto al Karolinska Institutet sul problema dei mediatori chimici dell'emozione: era una cosa che mi affascinava ed ho sognato per molto tempo di passare il resto della mia vita facendo il neurochimico; poi, una serie di circostanze hanno fatto sì che la cosa finisse lì e per molto tempo ho avuto la sensazione di una cosa troncata.
Quindici anni fa è successa un'altra cosa simile, ho fatto un Master in Intelligenza Artificiale a coronamento di una lunga passione (in gran parte da autodidatta) per il computer, che credo tutti voi sappiate, mi caratterizza. Anche l'intelligenza artificiale mi aveva affascinato molto, era il momento del grande sviluppo delle teorie computazionali e delle grandi promesse che esse sembravano offrire. Ho passato un paio d'anni ad implementare modesti prototipi di sistemi esperti e poi anche questa cosa è finita lì: l’intelligenza artificiale è diventata cognitivismo e si è trasferita in grandi istituzioni multidisciplinare di ricerca.
L’ultimo pezzo della mia storia personale vi è certamente più noto, mi riferisco al mio interesse per Bion: e sapete bene anche come la scomparsa di Parthenope abbia cambiato molte delle prospettive e della serenità degli investimenti che su questo avevo riposto.
Rimaneva e rimane fermo, in tutto questo, l'amore per la psicoanalisi che in questi ultimissimi anni mi ha portato all'interesse per qualche cosa di abbastanza innovativo e di abbastanza scandaloso come la terapia online: soprattutto per l'aspetto epistemologico che la terapia online presenta, vale a dire la ridiscussione delle basi epistemologiche e strutturali del nostro concetto di terapia: che cosa è sostanziale e che cosa non lo è.

Come vedete sono pezzi molto frammentati e che erano rimasti apparentemente molto separati, finché, poco prima dell'estate, mi si è offerta l'imprevista possibilità di rimetterli insieme, perché ho cominciato ad occuparmi di psicosomatica e a dover preparare delle lezioni di psicosomatica. All'inizio pensavo che la cosa fosse molto semplice, avevo un preciso ricordo di cos’era la psicosomatica ai lontani tempi della mia formazione medica e psichiatrica: ed ho cominciato, secondo il mio stile, mandando un po' di mail in giro per il mondo, ai miei amici negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, etc. chiedendo che mi dicessero che cosa si faceva o si insegnava in merito nelle loro istituzioni.

La risposta è stata all'inizio alquanto inquietante, nel senso che non si fa psicosomatica quasi da nessuna parte; in quasi nessuna importante Università esiste un Corso di psicosomatica. Ma, mi è stato fatto osservare, perché non ha nessun senso pensare ad un corso di psicosomatica, come io lo avevo pensato: nel modo classico, cioè, così come avevo lasciato la psicosomatica trent'anni fa: le holy seven di Chicago, le teorie basilari sullo stress, etc. La dimensione psicosomatica è stata infatti completamente rivoluzionata – mi si diceva, con un qualche stupore per la mia ingenua ignoranza - dallo sviluppo delle neuroscienze; e così mi è stato un po' simpaticamente suggerito di andare a studiarne qualcosa prima di occuparmi di psicopatologia e clinica psicosomatica.

A questo punto il discorso è subito andato su un tema di fondo: quello del rapporto mente-corpo (già, dimenticavo i lunghi anni trascorsi immerso nello splendido studio della filosofia …), in che rapporto stiano, cioè - posto che siano due cose diverse - la mente e il corpo.

 

La coscienza.

Dieci anni fa sarebbe stato tutto più semplice – e meno stimolante, sicuramente. Perché siamo proprio uscendo dal cosiddetto decennio del cervello. Voi sapete, gli anni ‘90 sono stati il decennio in cui il governo americano ha investito miliardi di dollari nelle ricerche sulle neuroscienze: ovviamente anche per il semplice motivo che i costi sociali di malattie come l'Alzheimer, la depressione e la schizofrenia sono così spaventosi che è meglio trovare una soluzione eventualmente farmacologica invece che sopportare tutti i costi sociali che la patologia implica …

La prima conseguenza di questi dieci anni di forte impulso alla ricerca è stata la messa a punto di tecniche di indagine in campo neuroscientifico completamente innovative, le così dette tecniche di imaging: si tratta di modalità non invasive, non pericolose, prive di effetti collaterali (salvo eventualmente la loro macchinosità), costosissime, ma che ci consentono di avere una rappresentazione raffinata delle strutture cerebrali e soprattutto dei loro funzionamenti dinamici: che cosa succede, quali aree si attivano, in che modo e come si rapportano tra di loro su una scansione temporale molto stretta (di millisecondi) quando avviene un qualsiasi evento psicologico. Sono queste fondamentalmente la PET (tomografia a emissione di positroni) e la fNMI (risonanza magnetica funzionale - che è una variazione particolare della risonanza magnetica nucleare che tutti conoscete). A questi strumenti, che consentono di osservare il funzionamento fisiologico dell'attività cerebrale senza alcun danno per il paziente, si sono affiancati i tradizionali metodi di indagine delle neuroscienze, fondamentalmente quello della lesione: e tutto questo ha enormemente affinato la quantità di dati, notizie e informazioni di cui oggi disponiamo.

Questo tipo di studi si è accompagnato, dall'altra parte, ad un rinnovato interesse, soprattutto nel campo della filosofia ed in particolare di quella nord-americana (Dennett, Chalmers, Churchland fra i principali), al problema della coscienza. La coscienza è intesa, a questo punto, come il nodo cruciale la cui definizione in termini filosofici, psicologici, neurologici, neurofisiologici, cognitivisti, psicoanalitici etc, rappresenta il punto di volta del complesso discorso sul rapporto tra il corpo e la mente. La conferenza di Tucson del 1966 fu, a tutti gli effetti, la data essenziale di questo impetuoso e straordinario torrente di studi: una settimana di lavoro a tempo pieno in cui specialisti di ogni tipo - dai linguisti ai buddisti, dai cantautori agli esperti di sociologia, agli psicoanalisti, agli psicologi, ai neurofisiologi, ai neuroscienziati, agli esperti di teoria computazionale, etc. - hanno cercato e costruito un modo e un metodo per affrontare l'avventura di capire cos'è e come funziona la mente. La cosa sconvolgente – almeno per me – è stato di come la riflessione sulla mente coagulasse approcci scientifici apparentemente molto lontani tra di loro, uno dei quali è - per esempio - la meccanica quantistica.

La meccanica quantistica, infatti, è l'unica a poter offrire una fondazione epistemologica al problema cruciale per lo studio della mente della libertà o libero arbitrio. Essendo la nostra modalità di pensare basata sulla fisica classica, e quindi sulla meccanica classica, ed essendo la meccanica classica una meccanica deterministica, tale per cui se di un corpo si conoscono la posizione, l'accelerazione etc., si è in grado di determinare con certezza assoluta la sua futura posizione in un determinato tempo: una qualunque teoria biologica basata sulla meccanica tradizionale porta inevitabilmente ad una contrazione degli spazi concettuali del cosiddetto libero arbitrio. La caratteristica centrale della meccanica quantistica, invece, è che si tratta di una teoria delle probabilità, che parte dal presupposto che non è possibile misurare contestualmente la posizione e il movimento di una particella, e che la posizione di una particella in un determinato istante è completamente indeterminata, ossia che essa potrebbe trovarsi contemporaneamente in diversi punti dello spazio: la sua posizione reale è determinata unicamente dal rilevatore, cioè dallo strumento che la rileva. Alcuni Autori, come Johnjoe McFadden (Johnjoe McFadden, Quantum Evolution - The New Science of Life. Harper Collins, 2000), hanno ritenuto di poter fondare una moderna e coerente teoria del libero arbitrio proprio partendo dalle concezioni della meccanica quantistica.

 

La concezione monistica del rapporto mente-corpo

Abbandono questo discorso, che ci porterebbe troppo lontano - come ci porterebbe lontano parlare delle teorie computazionali che sono state via via usate per tentare di inquadrare il funzionamento della mente - per arrivare ad una prima conclusione importante e cioè che - è ovvio, è banale, ma forse non così tanto - qualsiasi concezione vogliamo noi avere oggi del rapporto mente-corpo, qualsiasi idea vogliamo utilizzare nella nostra elaborazione culturale o scientifica, non può che essere una posizione monistica. Mentre la tradizione cartesiana proponeva una visione dualistica e interazionistica - la mente interagiva sul corpo, il corpo forse interagiva sulla mente, restando la mente un concetto sostanzialmente astratto e per alcuni versi metafisico - oggi non possiamo che rifarci ad una posizione monistica, per esempio riferendoci in termini operativi alla proposta di Russell: la mente e il cervello sono due modi, due linguaggi, due livelli da cui si guarda allo stesso fenomeno da due epistemologie diverse. Ma un punto deve essere fin da subito chiaro: che la posizione monistica, non è una posizione riduzionistica, cioè a dire che un qualunque discorso neuroscientifico richiede, fonda e implica di necessità una psicologia - ben lungi dal renderlo inutile o desueto.

Tanto per capirci, se dobbiamo parlare di un libro, certamente sappiamo che è fatto da un certo numero di cellule di cellulosa su cui sono state impregnate con un certo processo delle molecole di inchiostro, etc.: nessuno di noi si sognerebbe di pensare al libro come ad un’entità metafisica, il libro è quella serie di cose concrete che rispondono ad una serie ben precisa di regole chimiche e fisiche; ovviamente, però, se vogliamo parlare di un libro di Kant, non ci metteremo a discutere in termini di molecole di cellulosa o di processi fisico-chimici di stampa, ma invece in termini di concetti. L'importante è che i due livelli di discorso, il libro e il suo contenuto, siano mantenuti come afferenti allo stesso oggetto e che non siano invece reificati in due dimensioni diverse e incompatibili. Il discorso cartesiano era invece un discorso di reificazione, si parlava proprio di una res extensa e di una res cogitans, aliene e incomunicabili l'un l'altra, salvo i loro possibili assetti interazionistici. Dunque dobbiamo e possiamo continuare a parlare (per esempio, in quanto psicoanalisti) di mente, a patto però di non dimenticare che la mente è un altro modo di parlare di un insieme di processi cerebrali che andiamo sempre più conoscendo e dei quali ci sono sempre più chiare per lo meno le direttive di sviluppo; e senza dimenticare, come è banale osservare e come d'altra parte tutti sanno, che questa era cent’anni fa la posizione dello stesso Freud, i cui primi tentativi furono di fondare il discorso psicoanalitico su un per i tempi assolutamente impossibile parallelismo con le teorie sul funzionamento dei neuroni.

 

Neuroscienze e psicoanalisi

Le neuroscienze non sono mai state molto amiche della psicoanalisi e viceversa. Mark Solms, un analista tra i massimi esperti e cultori di questo settore, sostiene che questo dipende dal fatto che gli psicoanalisti sono persone a cervello destro dominante, mentre i neuroscienziati sono persone a cervello sinistro dominante: e notoriamente i cervelli sinistri e i cervelli destri dialogano molto malamente tra di loro, perché utilizzano strutture concettuali e algoritmi di comunicazione abbastanza diversi.

Da qualche anno, però, le neuroscienze sono entrate prepotentemente all'interno del discorso psicoanalitico e va dato atto alle strutture ufficiali dell'I.P.A. di aver dato un importante sviluppo a questa direzione. La newsletter dell'I.P.A., per esempio, ha pubblicato tre anni fa una serie di interviste a vari Autori, fra cui Fonagy e Gabbard, sull'importanza delle neuroscienze per la teoria e la pratica della psicoanalisi e sullo stesso tema, a cominciare dal 1997, l’International Journal of Psychoanalysis ha pubblicato una serie di articoli (introdotti da un primo contributo di Olds e Cooper) scritti da Regina Pally, che è una neuroscienziata e psicoanalista di Los Angeles, il cui obiettivo è stato quello di radunare e riordinare l'enorme massa di nozioni disponibili, cercando di distinguere i dati dalle teorie, per tentare di fornire allo psicoanalista una serie di elementi su cui, se vuole, può riflettere.

Io non so se avete avuto come me l’occasione di rileggere i sei articoli uno dietro l'altro, perché sono stati pubblicati in momenti diversi nel corso di due anni e mezzo e quindi possono anche essere sfuggiti nella loro consequenzialità [Successivamente, Regina Pally ha riunito gli articoli in questione in un libro, pubblicato per i tipi dell’editore Karnac Books di Londra]: se così non è, vi suggerisco di farlo, perché sono molto ben fatti e costituiscono, nel loro insieme, un quadro davvero completo da cui partire; ed allo stesso modo vi consiglio poi di leggervi il bel libro di Antonio Damasio (The Feeling of What Happens), che è del dicembre ’99 - già in parte superato! – e facendo cenno del quale concluderò il mio intervento, non senza dirvi subito che si tratta di un libro che mi ha colpito moltissimo.

Proviamo a leggere insieme qualcuno di questi dati, di cui la Pally ci fa menzione ...

Tanto per cominciare, il cervello umano si articola in circa 10.000.000.000 di neuroni (più un numero ancora più grande di cellule gliali, il cui possibile ruolo nei processi mentali è sempre più postulato in questi ultimi anni); ciascuno di questi neuroni costruisce da 60 a 100 mila connessioni. Se provate a immaginare che cosa vuol dire in termini di teoria computazionale una cosa del genere, avrete che il numero complessivo delle connessioni sinaptiche può essere calcolato in 10 alla ventisettesima (1027), che è un numero immenso e, per me, di difficile raffigurazione. Tenete conto che, pur essendo il cervello il 2% del peso complessivo dell'essere umano, ben il 20% del patrimonio genetico che ciascuno di noi si porta è dedicato esclusivamente alla determinazione delle strutture neuronali: a conferma che il peso che la struttura encefalica ha assunto nella storia dell'evoluzione è evidentemente largamente sproporzionato alla sua massa volumetrica.

Qual è l'unità funzionale del cervello? Non il neurone naturalmente, ma quello che costituisce un circuito minimale, cioè una connessione di n neuroni tra di loro. Il concetto di circuito è importante perché dal 1949 - pensate 50 anni fa! – ci rifacciamo ad una regola che si è dimostrata valida, che è la legge di Hebb, la quale dice che quando due neuroni sono connessi in un'attività psicologica, cioè quando vengono usati contestualmente, si verifica un sempre maggior rafforzamento sinaptico, cioè tende a costruirsi una connessione relativamente più stabile e permanente tra quei due neuroni. Tanto per buttare un primo discorso, questo vuol dire che quando la gente ci accusa di fare stranezze perché seguiamo e diamo rilevanza alle associazioni delle persone - l'associazionismo essendo la modalità per cui una cosa si collega ad un'altra anche se apparentemente non esiste una regola logica o razionale per questa connessione – in realtà non facciamo che applicare, più o meno inconsapevolmente, la legge di Hebb …

Sappiamo molte cose del modo in cui il cervello evolve, tra cui la più rilevante per noi, mi sembra, è che le strutture cerebrali maturano in modo diverso: in tempi diversi e soprattutto con fasi specifiche. C'è un preciso momento dello sviluppo, per esempio, in cui se voi mettete una benda nera davanti agli occhi al ratto e ce la lasciate 24 ore, il ratto diventerà cieco e non acquisterà mai più la capacità di vedere; se gli mettete la benda il giorno prima o il giorno dopo, invece, il circuito cerebrale che dalle cellule retiniche va a finire alle strutture di alta connessione si svilupperà regolarmente. Questo perché quello che è importante è che lo sviluppo della struttura encefalica è sicuramente geneticamente determinato, ma avviene in risposta a stimoli ambientali e questi stimoli sono fase-specifici. Per esempio gli studi più recenti sull'attaccamento mostrano che c'è un momento preciso nella storia dello sviluppo in cui la risposta del bambino al caregiver porta alla costituzione di una certa serie di strutture cerebrali ed alla produzione di mediatori che si mettono in funzione, e che questo non accadrebbe né prima né dopo quel momento.

Ma qual è la grossa scoperta delle neuroscienze e perché le neuroscienze sono così fondanti, a mio avviso e per fortuna non solo mio, il discorso psicoanalitico? Perché, buttando a mare trent'anni di behaviorismo e mettendo in subbuglio anche qualche decennio di cognitivismo, negli ultimissimi anni, diciamo dal ‘95 in poi, quello che le neuroscienze hanno messo al centro della vita psichica e al centro dei meccanismi di funzionamento cerebrale è l'emozione. L'emozione è il pattern unico di risposta con cui la struttura cerebrale affronta qualsiasi stimolo, interno e esterno; un pattern organizzato su base genetica che si sviluppa, anche questo ovviamente, in seguito a una serie di stimoli che lo organizzano, lo personalizzano e lo fanno evolvere.

Sostanzialmente quello che il cervello fa continuamente, e non fa nient'altro che questo, è di ricevere e processare degli stimoli. Per fare un esempio, voi in questo momento mi state guardando, mi state ascoltando, c'è almeno una serie complessa di strutture che processano la mia immagine - perché ce n'é qualcuna che processa solo la mia faccia, qualcuna che processa la forma, qualcuna che processa il colore - in più sentite la mia voce, sentite anche il mio odore, e in più state percependo il vostro stato organico interno, il vostri movimenti etc.: tutta questa serie di cose, che è contemporanea, avviene su una struttura di elaborazione parallela, cioè contemporaneamente, e tutta questa struttura ha come risposta una serie di emozioni. Da LeDoux in poi - LeDoux è un grande neuroscienziato americano che ha pubblicato un libro importantissimo che si chiama The Emotional Brain, che è stato un caposaldo - sappiamo per certo che qualsiasi cosa che succeda e che quindi viene percepita ed elaborata dal cervello viene processata attraverso un pattern emozionale, nel senso che c'è una prima risposta istantanea, breve, sottocorticale, filogeneticamente antica, che ci dice subito, senza che noi lo avvertiamo, se si tratta di uno stimolo concepibile in termini evoluzionistici per la nostra sopravvivenza immediata e futura come positivo o pericoloso. Questa è una risposta automatica. Dopo di che lo stesso stimolo fa un giro più lungo, dal talamo raggiunge la corteccia e viene rielaborato in modo assai più complesso, coinvolgendo in particolare il database della memoria di cui noi tutti disponiamo. Attenzione ad un punto: il circuito breve è sempre intrinsecamente inconscio, il circuito lungo può – non necessariamente, peraltro – essere portato a coscienza. Ecco la seconda grande scoperta delle neuroscienze, con buona pace di Freud che lo aveva detto cent'anni fa: la stragrande maggioranza della nostra attività mentale è assolutamente inconscia. Solo una piccola parte della nostra attività mentale, e per motivi molto specifici, può essere portata alla coscienza.

La coscienza di cui andiamo tanto fieri è in genere un lusso, qualche volta molto utile, in genere – dal punto di vista evolutivo – un impiccio, perché lenta, troppo lenta per le immediate necessità della sopravvivenza fisica e mentale ...

Con una ulteriore complicazione, che risponde anche questa alla teoria dell’evoluzione: e cioè che il cervello ha conservato nella sua organizzazione strutturale i vari passi intermedi della storia filogenetica, e quindi noi abbiamo una sorta di cervello dei rettili (brain stem e gangli della base), una sorta di cervello dei mammiferi inferiori (il sistema limbico), e una sorta di cervello dei primati (la corteccia), con in più uno sviluppo notevole e caratteristico del lobo frontale. Quello che ci tiene in vita è la parte antica e profonda di noi e quella parte antica e profonda porta probabilmente cablati antichi messaggi. Se vuoi pigliate un uccellino appena nato, e in laboratorio gli fate passare sopra l'ombra del falco, non il falco ma semplicemente l'ombra del falco, l'uccellino appena nato, e che quindi non ha potuto ancora avere nessun tipo di apprendimento, ha una serie di registrabili attività cerebrali e di registrabili fenomeni che potremo chiamare emozionali (in particolare la reazione tipica che hanno i piccoli animali in queste circostanze, che si chiama freezing, cioè si immobilizzano e si fanno piccoli sperando che il falco non li noti). L'uccellino appena nato non sa che cos’è il falco ma possiede un engramma grossolano su come sono fatti il falco ed i predatori in genere, ce l'ha scritto dentro, ce l'ha cablato nell'amigdala. A me verrebbe da dire che ha una preconcezione, per fare subito un salto a Bion, e ce l'ha perché altrimenti non potrebbe sopravvivere, perché se non avesse quella preconcezione e quando vede il falco non chiedesse alla mamma 'cos'è quello, mamma?' evidentemente non ci sarebbe più un uccellino e comunque non potrebbe crescere ed apprendere (per esempio a distinguere il falco dall’ombra del falco). Questo avviene per tante altre cose nel senso che è del tutto evidente che una serie di comportamenti emozionali sono profondamente cablati all'interno delle nostre strutture sottocorticali profonde e sono quelle che ci fanno vivere e soprattutto, per quanto ci riguarda, sono quelle che ci inducono nelle fasi precocissime della nostra storia ai movimenti dell'attaccamento.

Dire che l'emozione è diventato il paradigma centrale vuol dire anche che le tradizionali distinzioni della psicologia - si parlava di una psicologia della percezione, di una psicologia della memoria, di una psicologia della motivazione etc. - permangono sicuramente concettualizzazioni valide, ma sono ancora una volta modi diversi di guardare ad una stessa cosa. La memoria, per esempio, non è altro che memoria di emozioni.
Sulla memoria sappiamo molto, per esempio che è organizzata fondamentalmente in due modi: un modo che è sempre inconscio, che è la memoria procedurale, e un modo che qualche volta può diventare conscio, che è la cosiddetta memoria dichiarativa. La memoria procedurale contiene, secondo molti autori, Fonagy tra questi, anche gli schemi di relazione primaria che si sono costruiti nella precoce vita infantile del bambino e che gli mettono a disposizione fin dall'inizio le modalità con cui la procedura dell'attaccamento può essere eventualmente messa o non messa in gioco.

Volevo ancora far cenno, molto brevemente, alla questione della specializzazione emisferica, argomento di cui moltissimo si è parlato, ma rispetto al quale ormai molto è chiaro, dopo decenni di sperimentazione fra cui fondamentalmente i lavori di Sperry e di Gazzaniga: i due cervelli destro e sinistro hanno specializzazioni assolutamente diverse, ma c'è un aspetto che a noi interessa molto. E cioè si dimostra sperimentalmente con una serie di esperimenti molto limpidi, che il cervello sinistro, che è quello del linguaggio e della motricità fine, ha una caratteristica strutturale, e cioè cerca sempre di dare un’interpretazione dei fatti. Cerco di spiegarmi, in breve: il cervello destro è quello che presiede fondamentalmente alla rilevazione della componente emozionale di un qualunque stimolo, è quello che gestisce le rilevanze complessive, è un cervello, si dice, analogico, perché ha una visione complessiva; è la parte di noi che ha a che vedere con l'arte, con la musica, con la poesia e con altre cose ancora. I due cervelli si scambiano le informazioni, il cervello destro raccoglie l'emozione e il cervello sinistro la mette in parole. Il cervello sinistro però sembra regolato da una legge per cui ha bisogno di dare una spiegazione a tutto: se si toglie l'afferenza destra al cervello sinistro, come nel test di Kada, in cui si fa toccare un oggetto a una persona in cui il cervello sinistro è inattivato perché sottoposto ad anestesia profonda mentre quello di destra è funzionante, il cervello di destra avrà una percezione complessiva dell'oggetto, ma non sarà in grado di descriverlo a parole, perché le parole sono nell'altra parte del cervello che è in anestesia: quando il cervello di sinistra si riattiva e si chiede alla persona quale oggetto aveva in mano, la persona non lo sa dire, perché l'informazione non è passata dal cervello destro al cervello sinistro; allora si fa vedere alla persona una serie di raffigurazioni di oggetti, uno dei quali è l'oggetto che la persona ha toccato, e immediatamente il cervello destro, che ha questa capacità di riconoscimento globalizzato, riconosce l'oggetto. A questo punto spontaneamente la persona aggiunge un commento e in genere dice 'me l’ero dimenticato, non sapevo, non mi veniva la parola etc.' che è completamente fasullo, ma è il bisogno del cervello sinistro di completare sempre. Un’interpretazione, dunque.

 

Modelli neuroscientifici della mente e psicoanalisi

Esistono modelli che provano a mettere insieme tutto questo e che ci possono essere utili come psicoanalisti? Secondo me sì, e ve ne citerò solo due, molto rapidamente.

Il primo è il modello di Rodolfo Llinas, un neurofisiologo sudamericano, che secondo me ha un’immagine bellissima, tremendamente bioniana. Llinas dice: che cosa fa il cervello? Il cervello non fa altro che continuamente monitorare il suo stesso stato interno, nel senso di fare lo scanning di sé stesso. Non è vero che il cervello guarda il mondo esterno, il cervello guarda i contenuti emozionali che si sono creati e che si continuano a creare al suo interno. Voi state sentendo le mie parole, cioè all’interno del vostro cervello si sono modificate e continuano a modificarsi molte cose: sapete e dite che sono io che parlo non perché, come dire, guardate me oggetto esterno della vostra realtà, ma perché il vostro cervello continua a leggersi dentro e ha scoperto che si è formato quel certo tipo di immagine, è stato attivato quel certo tipo di ricordo, etc. etc. Allora Llinas dice, in realtà che cosa fa il cervello? Il cervello non è altro che qualcuno che sogna in continuazione e che ogni tanto è disturbato da eventi esterni. Ogni tanto è detto in modo eufemistico, naturalmente, intendendo dire che il cervello è un mondo chiuso al suo interno, è un sottosistema chiuso, che continuamente rielabora i suoi contenuti, come avviene nella nostra esperienza psicologica del sogno, i suoi contenuti essendo un riflesso soggettivo e interpretato di una serie di fatti esterni che sono accaduti.

 

Il modello di Antonio Damasio

Il modello più bello e per me più utile a noi psicoanalisti è, per me, in questo momento è il modello di Damasio. Antonio Damasio è un neuroscienziato di origine portoghese che lavora all’Università dell’Iowa e che pubblicò nel 1994 un primo libro importantissimo, L’errore di Descartes, che non era soltanto un discorso sul monismo (l’errore di Cartesio essendo in questo caso l’enunciazione della teoria dualistica), ma era anche l’errore di avere dimenticato la centralità del ruolo delle emozioni.

Damasio partiva da una serie amplissima di studi neuroscientifici e da un’importante elaborazione computazionale e diceva molto semplicemente in quel libro che la banale situazione in cui qualcuno al telefono ci dice: ‘vieni a cena da me stasera?’ e noi in genere, nello spazio di qualche millisecondo, rispondiamo ‘sì/no’, richiederebbe una massa di computazione così ampia, in altre parole richiederebbe di tenere insieme così tanti dati computazionali, da essere di fatto impossibile. E allora come facciamo? Damasio dice che possiamo funzionare grazie al fatto che si inscrivono nella nostra storia esperienziale man mano che viviamo delle emozioni e che queste emozioni sono sostanzialmente emozioni somatiche. E’ la teoria del marcatore somatico dell'emozione.

Negli anni Damasio ha raffinato il suo modello e ha condotto alcuni esperimenti semplici ed elegantissimi che io trovo stupendi. Ve ne racconto rapidissimamente uno per darvi anche ragione di un'altra teoria, che è quella per cui le nostre decisioni avvengono sempre dopo che sono state prese, cioè a dire, noi pensiamo di decidere di fare una cosa, in realtà ci accorgiamo semplicemente e solamente che il cervello ha deciso di fare una cosa è lo ha deciso qualche tempo prima …

Il giochino di Damasio consiste in questo: ci sono due mazzi di carte su due tavoli e delle persone, assolutamente normali sotto tutti i punti di vista, cui è richiesto di giocare con la sola avvertenza che si tratta in entrambi i casi di giochi d'azzardo, dove saranno puntati dei soldi. In realtà i due mazzi sono strutturalmente diversi, ma questo il giocatore non lo sa, naturalmente: un mazzo è strutturato in modo che si vince e si perde pochissimo e alla lunga si vince, l'altro mazzo è strutturato in modo che si perde di brutto, e tantissimo. I due mazzi sono ovviamente del tutto identici tra di loro.
La persona normale dopo un certo numero di volte che ha provato le carte, ha una reazione cutanea galvanica totalmente diversa ai due mazzi: precisamente dal mazzo da cui ha pescato due o tre volte la carta drammatica ha una risposta del tipo che gli si rizzano i peli, non è così naturalmente ma l'analogia è questa, mentre non ha alcuna risposta di questo tipo dall'altro mazzo. Una parte del cervello ha capito quasi subito, ha imparato dall'esperienza e in qualche modo orienta al meglio il comportamento. La persona normale tende statisticamente a pescare di più dal mazzo buono e se lo si blocca dopo tre o quattro volte, quando ha già la risposta galvanica, e gli si chiede come mai pesca prevalentemente da un mazzo risponde che ha pescato a caso. Solo più tardi l'emisfero di sinistra sarà in grado di formulare una teoria conscia dei mazzi …
C'è un'unica situazione in cui questo non avviene. Ci sono certe lesioni, per esempio, del territorio periamigdaloideo in cui non c'è riflesso galvanico e le persone non imparano e vanno avanti a pescare a caso, e quindi secondo la legge gaussiana della casualità perdono tutto e - soprattutto - non imparano …

Damasio compendia la sua teoria sulla mente in un'unica frase, tu sei la musica mentre la musica suona: cioè non sei tu che ascolti la musica, che era l'ipotesi di Cartesio, l'homunculus che stava a guardare il teatro cartesiano, ma tu sei la musica mentre la musica suona, ciascuno di noi è l'insieme delle strutture e dei funzionamenti cerebrali che la storia personale di ciascuno di noi - integrando l'antichità filogenetica del nostro sviluppo, l'evoluzione ontogenetica dei nostri geni e l'interazione ambientale che abbiamo vissuto - ha costruito.

 

Una nuova psicoanalisi

Qual è importanza di tutto questo per la psicoanalisi? Emde ha presentato l'anno scorso al Convegno internazionale dell'I.P.A. un importante lavoro sottolineando il ruolo integrativo delle emozioni e cercando di mettere un po' insieme le teorie e le varie posizioni, da Damasio a, per esempio, i lavori di Wilma Bucci. Molto si è fatto sul tema dell'attaccamento, in particolare da parte del gruppo di Fonagy, e quindi sicuramente del lavoro teorico si sta facendo che tenga anche in considerazione il portato delle acquisizioni neuroscientifiche.


Lavoro si sta facendo anche sul versante della comprensione dei meccanismi del cambiamento psicoterapeutico, che va orientandosi sia verso la rilevanza del ruolo di meccanismi inconsci (i moments of meaning di cui ci parla Stern) che hanno a che fare con la memoria procedurale sia verso comunque un modello generale per cui qualsiasi cambiamento non può che implicare un cambiamento nell'espressività genica e quindi una variazione strutturale del cervello: come diceva Kandel, nel suo celebre articolo del '79, se una psicoterapia provoca un cambiamento mentale, vuol dire che ha provocato un qualche mutamento nella struttura cerebrale (e questo mutamento è, almeno teoricamente, dimostrabile con le tecniche di imaging).


Perché un'interpretazione può funzionare? Da un lato, dunque, perché può indurre nuove acquisizioni nella memoria procedurale, dall'altro perché può implicare acquisizioni (consce) nella memoria dichiarativa, che potrebbero meglio bilanciare taluni assunti procedurali della nostra storia precoce. Beninteso, ricordandoci che già Freud ci aveva parlato di uno zoccolo duro, perché quello che sta scritto, per esempio nell'amigdala circa le nostre paure, sembra non alterabile: come sembra dimostrato che l'influenza dell'amigdala sulla corteccia è comunque molto maggiore della retro-azione della corteccia sull'amigdala (il che implica, per esempio, una sorta di inguaribilità della fobia …).


Ma questo ci porta anche a un nuovo discorso, su qual è il ruolo del corpo all'interno dell'analisi e soprattutto qual è il ruolo del viso. Le neuroscienze hanno dimostrato, ad esempio, che una grossa parte di circuiti cerebrali sono unicamente dedicati alla percezione del viso e sono ancora una volta circuiti sottocorticali amigdaloidei. Il viso viene letto ed imparato nella dinamica dell'attaccamento: ora, la struttura diadica dell'analisi è un ambito in cui si ripete l'attaccamento, ma in cui la percezione del viso non entra in gioco ...


Insomma c'è molto lavoro da fare ed affascinanti prospettive si sono aperte: se se ne accetta l'aspetto catastrofico …
Ricordo qui in particolare il lavoro di Mark Solms e di Karen Kaplan-Solms, quello di Howard Shevrin e le intuizioni ed i suggerimento di Glen Gabbard, e la recente costituzione di una nuova rivista internazionale, che trovate anche su Internet, che si chiama NeuroPsychoanalysis. In Italia vorrei qui ricordare l'opera pionieristica di Mancia, ma anche, più recentemente, il lavoro di Scalzone e di Seganti. Sono, credo, i principali punti di riferimento di un discorso che molto faticosamente comincia a trovare spazio, anche qui, anche qui dove le strutture di neuroscienze sono povere, dove non abbiamo abbastanza soldi nei grandi Istituti per avere PET o risonanze magnetiche funzionali, dove non possiamo fare altro, credo, che studiare le acquisizioni che altri continuano a fare …


E, da questo punto di vista, davvero colpisce la preveggenza di alcune posizioni bioniane: la centralità delle emozioni, la sottolineatura del sogno nella vita di veglia, il concetto del lavoro del sogno, una concezione dell'inconscio che non implica più necessariamente una censura, una visualizzazione della mente non più necessariamente topografica, come quella inizialmente freudiana, un discorso così marcatamente - pensate a Memoria del futuro - giocato sul piano dell'evoluzione filogenetica ed ontogenetica. De Masi sta lavorando su questo e credo che, forse, se ci potessimo lavorare anche noi, sarebbe molto bello.

Per me, lo è ...

 

© 2000-2006, Silvio A. Merciai