Michele Bezoari

 

DIMENSIONI DELLA MENTE NEL SETTING ANALITICO DI COPPIA:

TRA L'INDIVIDUALE E IL GRUPPALE.

 

 

"La visione psicoanalitica classica supponeva che la mente o la personalità fossero identiche all'identità fisica di una persona. L'obiettivo della mia proposta è di disfarmi di una tale limitazione (...)"

W.R.Bion, Cogitations, trad. it. pp. 314-315.

In questo lavoro cercherò di mostrare come l'opera di Bion aiuti a rendere meglio pensabili e praticabili quegli aspetti dell'esperienza analitica per cui risultano inadeguati i tradizionali strumenti teorici e tecnici, basati su una concezione individuale della mente e su una combinatoria di relazioni tra soggetti-oggetti sepa rati.

Si tratta di un'esigenza suscitata in modo particolare dal confronto clinico con patologie psicotiche e borderline, ma anche, più in generale, dalla crescente consapevolezza del profondo coinvolgimento - conscio e inconscio - dell'analista nel processo analitico.

L'analista si trova oggi sempre più cimentato con situazioni nelle quali l'identità personale (sua e del paziente) è messa in gioco, in un orizzonte esperienziale la cui condivisione non può essere data per scontata, ma diventa una meta a cui tendere. Transitare per queste situazioni critiche senza smarrirsi né venir meno alla propria responsabilità terapeutica richiede quindi all'analista la messa a punto di un'attrezzatura teorica e tecnica che non dia, appunto, per scontato ciò che non lo è più - o non lo è ancora - e si presti invece a esplorare senza troppe preclusioni la fenomenologia emergente nel vivo della seduta.

L'esperienza con i gruppi è stata, evidentemente, preziosa nell'ispirare a Bion un pensiero psicoanalitico che ci può accompagnare al di là dell'ancoraggio ai modelli intrapsichici e relazionali classici, lungo una strada che la sua opera ha aperto e sulla quale possiamo cercare, grazie a lui, di inoltrarci.

E' noto che molti concetti-chiave del pensiero bioniano si collocano a un livello descrittivo dell'esperienza analitica che prescinde dal contesto concreto, individuale o di gruppo ( l'oscillazione PS - D; la relazione o o ; i legami L, H e K; le tre dimensioni costitutive dell'oggetto analitico; la teoria delle trasformazioni; ecc.).

Ma quello che vorrei qui mettere a fuoco è il contributo di Bion riguardo a ciò che, nel setting duale, richiede un allargamento di ottica che tende a collegarsi, sia pure in modi sui generis, alla dimensione gruppale. Da un punto di vista che non può che essere, ovviamente, soggettivo, cercherò di delineare una prospettiva nella quale il pensiero di Bion mi sembra interagire in modo fecondo con quello di altri autori contemporanei, indicando nuovi percorsi di ricerca.

Punti salienti di tale prospettiva (in parte già elaborati e condivisi con alcuni colleghi) sono: la configurazione della situazione analitica secondo un modello di campo e il ripensamento del processo e della funzione analitica in termini bipersonali e transpersonali.

 

 

Il modello di campo

 

Il modello di campo analitico a cui mi riferisco deriva dalla proposta teorica formulata da M. e W. Baranger negli anni '60. Come ho già illustrato in altre occasioni (Bezoari e Ferro, 1991), questa proposta mi sembra, nei suoi lineamenti di base, molto in sintonia con il radicale mutamento che Bion andava operando sui modi abituali di intendere la situazione analitica, sempre più vista come "faccenda a due sensi", in cui l'essenziale non è ciò che riguarda l'analista "e" l'analizzando, ma ciò che accade "tra" loro due.

Le affermazioni bioniane, espresse con particolare vivacità nei Seminari, circa il carattere reale, non solo fantasmatico, delle interazioni sottese al concetto di identificazione proiettiva e circa la natura inconscia - e quindi non padroneggiabile - del controtransfert sembrano trovare una notevole consonanza nelle idee dei Baranger sull'origine bipersonale della fantasia inconscia attiva in seduta.

Negli scritti con cui i Baranger presentarono il loro modello di campo (1961-1964) non si trovano espliciti riferimenti a Bion. Ma più recentemente (1993) M.Baranger ha riconosciuto quanto la nozione di fantasia inconscia bipersonale fosse debitrice al lavoro di Bion sui gruppi e, in particolare, alla teoria degli assunti di base.

Da parte sua Bion parla di "campo" solo raramente, in modo non sistematico e, il più delle volte, non sembra attribuire a questo termine uno specifico valore psicoanalitico. Ma c'è, nella sua opera, almeno un'occasione in cui questo accade, e in una forma molto significativa.

E' un passo di Trasformazioni nel quale Bion sta cercando di aiutare il lettore a familiarizzarsi con la sua descrizione di quei fenomeni mentali da lui chiamati "trasformazioni proiettive", per distinguerli dalle "trasformazioni a moto rigido" che corrispondono alle manifestazioni del transfert secondo la teoria analitica classica. A tale scopo, egli afferma, è necessario studiare più a fondo le caratteristiche della situazione analitica, che qui viene designata alternativamente come "recettore", "terreno" o, appunto, "campo" della trasformazione. Una situazione analitica concepita come luogo in cui l'analizzando trasferisce le proprie immagini sull'analista non sarebbe più "un medium adeguato" per consentire all'analista di riconoscere e trattare le manifestazioni cliniche dell'identificazione proiettiva.

Si rende allora necessaria l'idea di "un campo che, rispetto a quello vigente nella teoria classica, è, per così dire, multidimensionale" (p.159, corsivo mio).

Pur lasciando insatura la definizione del "campo" così prospettato, Bion aggiunge che esso dovrà includere non semplicemente l'analista o l'analizzando o il rapporto tra i due, ma "tutte queste cose e altre ancora" (p.160, corsivo mio).

Nell'aprire queste nuove prospettive sullo spazio analitico tradizionale il riferimento alle esperienze nei gruppi è per Bion molto presente, anche se solo a tratti viene esplicitato (come quando - in Trasformazioni, p.229 - per descrivere sinteticamente alcune dinamiche della coppia analitica utilizza gli stessi termini forgiati a proposito del funzionamento del gruppo in assunto di base).

Non si è certamente trattato per lui - né si tratta oggi per noi - di applicare automaticamente anche al setting duale ciò che si dimostra valido per il setting di gruppo (ripetendo così, in direzione opposta, uno storico errore metodologico). E', piuttosto, dall'interscambio creativo fra le esperienze e le riflessioni maturate nei due ambiti che possono nascere nuove idee, da sviluppare e verificare nella specificità di ogni contesto.

 

La dimensione bipersonale

 

In questa direzione mi sembra muoversi, ad esempio, Meltzer (1984) quando trae da Bion lo spunto per vedere l'analisi classica, cosiddetta individuale, come "una speciale attività di gruppo, un gruppo di due membri, radunato allo scopo di studiare l'esperienza del paziente " e riconsidera in base a tali nuovi presupposti la natura del processo analitico, in precedenza da lui stesso descritto in termini di "storia naturale" del transfert, cioè di eventi situati nell'inconscio del paziente, a cui l'analista partecipa solo di riflesso.

E in questa direzione si è sviluppato, ancor più vicino a noi, il pensiero di Corrao, che dell'istanza bioniana di reciproca fecondazione tra analisi di coppia e analisi di gruppo è stato, in Italia, il principale e più appassionato assertore. A lui si deve, tra l'altro, un'originale elaborazione del modello di campo (1986a), ispirata anche a concetti della fisica moderna e ricca di notevoli implicazioni teorico-tecniche. Dalla concezione del campo analitico come "insieme funzionale" egli trae, ad esempio, un'idea radicalmente bipersonale della funzione interpretativa, alla quale analista e paziente contribuiscono in una dimensione di "reciprocità e complementarietà ermeneutica" (Corrao, 1986b).

Considerare, con Bion, l'interpretazione come "un genere particolare di trasformazione" favorisce un tale mutamento di vertice rispetto alle posizioni classiche.

Le ormai famose affermazioni bioniane sul paziente nostro "miglior collega" e sulle naturali capacità che hanno i pazienti - anche o soprattutto se gravi - di percepire e segnalarci inconsciamente ciò che stiamo provando nei loro confronti, costituiscono ulteriori linee-guida per proseguire su questa strada, esplorando in dettaglio i fenomeni che emergono guardando all'esperienza analitica in un'ottica bipersonale.

Adottare coerentemente quest'ottica non è facile, anche per chi ne condivide teoricamente le "buone ragioni". Non si tratta, infatti, solo di mutare il proprio assetto cognitivo, ma di tollerare l'esperienza emotiva connessa alla sospensione dei criteri con cui, in modo quasi automatico, tendiamo a distinguere ciò che noi siamo, proviamo e diciamo "veramente" da ciò che il paziente ci attribuisce in base alle sue caratteristiche.

Se l'analista accetta di vivere nella stanza di analisi uno stato di fluttuazione dell'identità personale e dei confini individuali della mente, ciò può generare in lui nuove paure e incertezze, ma può anche consentire l'emergere di imprevedibili "pensieri senza pensatore" che prendono forma tra lui e il paziente, con sorpresa e beneficio di entrambi.

Con A.Ferro (1991) abbiamo chiamato aggregati funzionali gli elementi proto-simbolici frutto dei processi trasformativi della coppia analitica, grazie ai quali diventa possibile una rappresentazione condivisa di aspetti del campo emotivo nel quale analista e paziente sono entrambi coinvolti. Quando tali elementi compaiono nel dialogo, fungendo da "pietre di costruzione del racconto analitico" (Di Chiara, 1993), non è sempre possibile - né sarebbe opportuno sforzarsi di farlo - distinguere subito i contributi dell'uno da quelli dell'altro. Proprio rispettandone la natura composita e mantenendoli in uno spazio transizionale, invece di procedere ad una rigida distribuzione delle "parti", si può sfruttare al meglio il loro potenziale di espansione della pensabilità.

Una diffusa e un po' semplificata lettura dell'opera di Bion in termini di teoria della tecnica individua nella mente dell'analista il contenitore trasformativo di tutto ciò che accade in seduta, grazie alla sua capacità di reverie, il cui prototipo è la funzione materna nei confronti del neonato. Questo modello, abbastanza seducente, rivela però i suoi limiti di fronte ai pazienti più gravi, il cui apparato per pensare sembra seriamente danneggiato o forse mai costituitosi e che proprio perciò inducono più facilmente l'analista ad assumere un ruolo genitoriale sostitutivo. Nascono così interpretazioni che tendono ad agire direttamente sullo stato mentale del paziente, producendo certi effetti - ad esempio colmando certe sue vere o presunte lacune - invece di rivolgersi innanzi tutto a ciò che sta tra analista e paziente, alle forze e ai legami che condizionano il loro rapporto.

L'analista che avverte tutto su di sé l'onere di dare senso a ciò che accade nella stanza, con le inevitabili sfumature superegoiche di un tale compito, finirà più facilmente per evacuare nell'azione interpretativa quello che non riesce a metabolizzare da solo. Si rischia così il collasso del campo analitico (Bezoari e al., 1994) in quanto struttura di contenimento e trasformazione che può vivere e crescere, espandendosi, soltanto grazie all'incontro creativo di due menti

Per arricchire la nostra attrezzatura teorica e tecnica relativa al setting duale, sembra dunque opportuno integrare i concetti e i modelli ispirati alla relazione madre-bambino con quelli provenienti dalle esperienze di gruppo. Si può tener presente, ad esempio, come la formazione del contenitore e lo sviluppo del pensiero nei gruppi avvengano mediante l'apporto di tutti i membri e con la sospensione del giudizio di appartenenza individuale (me/non me) degli oggetti rappresentati.

Considerare il lavoro trasformativo in seduta come prodotto di due funzioni alfa cooperanti, e non di una sola, porta a rivedere sotto una nuova luce vari aspetti dell'analisi, nella sua peculiare natura di terapia e, insieme, di avventura emotiva e cognitiva dagli esiti imprevedibili.

Riguardo all'analisi come pratica terapeutica, si sente talvolta esprimere la preoccupazione che mettere in evidenza la dimensione bipersonale significhi alleggerire, se non addirittura eludere, la responsabilità dell'analista verso il paziente. Credo che tale responsabilità venga, semmai, accresciuta dalla maggior consapevolezza del suo inevitabile coinvolgimento inconscio e ciò che muta è soltanto il modo di concepirla ed esercitarla, allorché l'analista si ritiene non più l'unico artefice, ma piuttosto il garante della funzione analitica, a cui si richiede di mettere a disposizione le competenze necessarie affinché si costituisca, nel setting, un campo analitico adeguato alle esigenze di cura del paziente.

 

 

 

 

La dimensione transpersonale

 

Il terreno su cui la funzione trasformativa dell'analisi può attivarsi non è descrivibile soltanto in termini di immagini, sentimenti, conflitti patogeni che il paziente porta dentro di sé ed esteriorizza nel rapporto con l'analista (il quale a sua volta, sia pure in misura minore e più contenuta, farà altrettanto), dando luogo a quella che classicamente si chiama "nevrosi di transfert" e che oggi si può meglio denominare nevrosi - o psicosi - di transfert-controtransfert.

Un altro elemento costitutivo di quel "campo multidimensionale" postulato da Bion sembra avere piuttosto la caratteristica di clima o atmosfera emotiva che pervade la stanza di analisi e che si percepisce come qualcosa che influenza i movimenti affettivi, gli oggetti, le figure di volta in volta riconoscibili in seduta, rimanendo però sullo sfondo.

Questo genere di stati mentali, descritti e studiati anche nei gruppi e definibili come transpersonali (Kaes 1993, Neri 1995), rappresenta un'area di esplorazione teorico-clinica molto interessante, dove si incrociano diverse linee di ricerca.

A essere così indagata e messa in luce è forse la dimensione gruppale originaria, in cui la personalità si è formata e di cui quindi non può che conservare l'impronta, nel bene e nel male.

I recenti studi sulla trasmissione psichica tra generazioni (Kaes e al., 1993) indicano quanto possa risultare decisivo per la vita mentale qualcosa che il soggetto porta in sé ma non gli appartiene, essendo estraneo alla sua storia personale, e soltanto après-coup può diventare riconoscibile come legame con il gruppo familiare originario e con certe costellazioni psichiche inconsciamente trasmesse da una generazione all'altra. Impostisi all'attenzione nel trattamento di pazienti particolari, questi fenomeni suggeriscono oggi un nuovo punto di vista di cui avvalersi in ogni analisi (Faimberg, 1993).

Si tratterebbe, mi sembra, di considerare l'incidenza sulla vita psichica individuale e sulle relazioni interpersonali - compresa la relazione analitica - di un fattore che non è riconducibile a specifiche esperienze vissute, ma funge da organizzatore dell'esperienza. Un tale elemento, punto di articolazione tra la personalità individuale e la mentalità del gruppo familiare d'origine, si può immaginare come qualcosa che l'individuo attualizza nella sua vita di relazione senza che, tuttavia, si possa considerare inscritto entro i confini della sua mente come entità singola, né a livello conscio né a livello inconscio.

Su questi argomenti "di frontiera", che presentano molti lati ancora piuttosto oscuri, l'opera di Bion può offrire preziosi spunti di riflessione. Mi riferisco, in particolare, a certi passi di Cogitations, sui quali sono stato indotto a soffermarmi anche dalla discussione in un gruppo seminariale tenuto da Parthenope Bion (Bologna, 1966). Mi limiterò ad elencare, in sintesi, quelli che mi sembrano alcuni punti-chiave.

1) La necessità di sopravvivere nell'ambiente-gruppo è un'istanza formativa basilare dell'individuo (p.50).

2) Il cosiddetto "senso comune" rappresenta la "componente sociale dell'equipaggiamento istintuale" e corrisponde a una pressione gruppale che impone all'individuo certi modi di sentire e vedere la realtà come "naturali" (p.195).

3) Ciò che appare come "narcisismo" di alcuni pazienti, specialmente psicotici, in quanto esprimono una visione non consensuale della realtà, va messo in rapporto con il "senso comune" vigente nel gruppo e con la maggiore o minore capacità dell'individuo di adeguarsi ad esso. Il supposto "narcisismo primario" può, così, rivelarsi come "secondario alla paura del social-ismo " (p.51). Con questo termine Bion designa la polarità dei legami che vincolano e subordinano l'individuo al gruppo di appartenenza.

4) Se non si resta ancorati al pregiudizio classico, che situa la mente dentro i confini fisici della persona, si può immaginare che "come la terra, così anche l'uomo porta con sé un'atmosfera, seppure mentale" (p.198, corsivo mio).

5) Le esperienze che una perso Il lavoro di Andrea Ferrero

ANDREA FERRERO

Bion e la Psicologia Individuale

I contributi di Bion alla Psicoanalisi sono stati da alcuni considerati eterodossi e non integrabili rispetto al pensiero di Freud. Confrontare le sue tesi con quelle di Adler, il primo dissidente storico della Società psicoanalitica, e con quelle dei suoi seguaci, talvolta un po' eterodosse anch'esse rispetto a quelle del fondatore della Psicologia Individuale, è risultato particolarmente stimolante.

L'essere eterodossi va d'altronde considerato direttamente attinente allo specifico analitico, dove non è tanto importante escogitare brillanti teorie quanto invece accostarsi all'esperienza altrui per ascoltarla un po', anche quando si ha il piacere o si è capaci di scoprire qualcosa di particolarmente interessante ed originale.

Il confrontare teorizzazioni eterodosse o lontane tra loro richiede però una cautela. Ritengo infatti importante riconoscere un nucleo teorico ed anche epistemologico chiaro ed esibito in ogni riflessione psicoanalitica, che permetta di riconoscere i contributi degli altri senza dogmatismi ma anche senza cadere nell'eclettismo.

In queste riflessioni mi accontenterò di citare alcuni temi bioniani che mi sono parsi particolarmente importanti, per suggerire come sono affrontati oggigiorno dalla Psicologia Individuale, senza pretese di abbozzare delle linee di psicologia dinamica comparata.

 

I) Scientificità ed artisticità in psicoanalisi

Sono state spesso sottolineate le componenti poetiche del linguaggio scientifico di Bion. Al contrario di Freud, che nel 1929 scriveva a Romain Rolland: "In quali mondi, per me estranei, Lei si muove! La mistica è per me qualcosa di precluso, come la musica", il senso scientifico in Bion si coniuga, per inclinazione e formazione personale, col senso mistico ed il senso estetico (musica, pittura, poesia). "Ricorro ai poeti", disse, "perché mi sembra che essi dicono qualcosa in un modo che è al di là dei miei poteri, e che pure è tale che io stesso sceglierei, se ne avessi la capacità". Adler (Menschenkenntnis, 1926), analogamente: "(Compito dell'analista è quello di) aver seguito l'uomo nelle sue gioie e nei suoi dolori: in modo analogo l'artista trasferisce nel ritratto che intende dipingere ciò che intimamente e veramente avverte".

 

Come affronta oggi la Psicologia Individuale le tematiche della scientificità e dell'artisticità in psicoanalisi, ed in particolare quelle delle verifiche oggettive rispetto all'esperienza del vissuto soggettivo creativo?

Si considera per prima cosa che la conoscenza scientifica, nell'ambito delle Scienze Umane Applicate, non può far riferimento ad un concetto di "vero" o "falso" in sé, secondo i criteri delle Scienze Naturali (Ferrero, Bogetto e Fassino, 1984). Analogamente, Bion sostiene che ogni pensiero che noi possiamo formulare è falso rispetto alla verità dei fatti che, per definizione, non può essere conosciuta.

Per contro, un orientamento esplicitamente soggettivo non può essere considerato più fecondo, in quanto un certo grado di oggettività va considerato come "consustanziale alla scienza" (Rovera, 1979) in relazione ai fenomeni che intende descrivere e normare.

Kuehn (1985) ha considerato come piò che, nel setting duale classico, richiede un allargamento di ottica che tende a collegarsi, sia pure in modi sui generis, alla dimensione gruppale. Viene delineata una prospettiva nella quale il pensiero di Bion interagisce con quello di altri esponenti della psicoanalisi contemporanea, indicando nuovi percorsi di ricerca.

Punti salienti di tale prospettiva sono: la configurazione della situazione analitica secondo un modello di campo e il ripensamento del processo e della funzione analitica in termini bipersonali e transpersonali.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 


If you would like to get into touch with the Author of this paper to send comments or observations on it, please write to:
Se desidera entrare in contatto con l'Autore di questo lavoro per inviare commenti od osservazioni, scriva per favore a:

Michele Bezoari
via Boezio 9
27100 Pavia
Italy


©1997 - Copyright by Michele Bezoari