Emanuele Bonasia

 

Il sillogismo malato: la paura di morire e il sacrificio della verità

 

"La ragione è schiava dell’emozione ed esiste per razionalizzare l’esperienza emotiva" scrive Bion (1970).

In questo lavoro intendo sottolineare che, fra le diverse emozioni, la paura o meglio il terrore della morte, di grado variabile secondo le esperienze e i cicli vitali di ciascuno, spadroneggia nel campo della ragione umana.

Da questa premessa risulta evidente che non intendo argomentare di Logica: dirò soltanto che la teoria del sillogismo, a differenza di Aristotele che la intendeva come teoria generale dell’inferenza, rappresenta soltanto un settore della Logica moderna. Tuttavia ritengo si possa concordare che in questo specifico settore si estrinsechi una delle facoltà più sofisticate del pensiero: il ragionamento deduttivo. Come se la cava quest’ultima di fronte alla condizione ontologica della transitorietà di ciascuno? Devo ammettere che le sue prestazioni non sono al momento molto brillanti.

 

In un precedente lavoro (1988) ho sottolineato che nella maggior parte della letteratura psicoanalitica vi è poco spazio per il tema della paura per la propria morte: ciò è in contrasto col ruolo da essa giocato in psicopatologia, nella clinica psicoanalitica e nella vita di ogni essere umano; inoltre ho evidenziato l’esistenza, accanto agli aspetti nevrotici e psicotici, di un’angoscia reale (ogni angoscia è reale, ma qui uso il termine in contrapposizione a "nevrotico" e "psicotico") per l’inevitabilità della propria fine; ho anche sostenuto che tale angoscia è stata per lo più denegata dalla psicoanalisi, tramite l’utilizzazione di teorie diverse fra cui quella dell’angoscia di castrazione e quella della pulsione di morte. Su questo diniego psicoanalitico mi soffermerò ora brevemente.

 

 

Il problema della morte in Freud, M. Klein, Bion.

 

In Freud, che ne era personalmente assai angustiato, per come ci riferisce Jones (1953), il tema compare assai spesso con un andamento bifasico caratteristico, secondo cui tale ansietà da un lato viene ammessa e dall’altro denegata (denied). Così in Considerazioni attuali sulla guerra e la morte (1915) scrive che l’uomo non vuole ammettere la realtà della morte oppure cerca di spogliarla del suo carattere di annullamento totale dando vita alla dottrina dell’anima e alla credenza nell’immortalità, negli spiriti e nei demoni. Nel Perturbante (1919) scrive "a molti uomini appare perturbante in sommo grado ciò che ha rapporto con la morte... E’ raro trovare un ambito in cui il nostro modo di pensare e di sentire sia cambiato così poco dai tempi primordiali... come nella relazione con la morte".

Però in tutto il corso della sua opera Freud interpreta la paura della fine come un equivalente dell’angoscia di castrazione (castration), quale punizione per il fantasticato delitto edipico: tutta l’ansia relativa è quindi intesa come di natura nevrotica.

L’altra teoria intrododotta da Freud in connessione col nostro tema, fu quella dell’istinto di morte (1920): tralasciando le considerazioni svolte altrove (1988), ricorderò solo che Freud, postulando nella materia (addirittura all’interno delle cellule) la presenza di una forza demoniaca, compie a mio parere una brillante operazione di falsificazione, con una sorta di animismo intracellulare, trasformando Thanatos, inevitabile e necessaria, in una meta istintuale e quindi come tale oggetto di desiderio. La fine diventa un fine: il "purtroppo devi morire" si trasforma in "sei tu, con la tua cattiveria, che vuoi morire".

Tale teoria viene a rappresentare la versione laica del Mito dell’Eden in cui la mortalità di Adamo ed Eva è la conseguenza della trasgressione alla legge di Dio. Eppure lo stesso Freud in L’avvenire di una illusione (1927), nell’evidenziare l’inermità e impotenza reali dell’uomo di fronte a certi eventi della natura fra cui la morte, aveva mirabilmente descritto la funzione dell’animismo. Attribuire alle forze della natura le nostre intenzioni è un tentativo di controllarle e di sedare "la nostra angoscia assurda" .

 

M. Klein (1948) abbraccia come assioma la teoria dell’istinto di morte che Freud riteneva un’ipotesi altamente speculativa. Ella afferma che la paura della fine è la causa primaria dell’angoscia e che tale paura è messa in moto dalla pulsione di morte che minaccia l’organismo fin dalla nascita. In particolare essa ha due fonti: dalla pulsione operante all’interno e da quella componente della medesima pulsione che, proiettata negli oggetti esterni, ritorna, attraverso l’introiezione degli oggetti stessi, contro il Sè. In altre parole, se Freud tenta di addomesticare tale angoscia trasformandola in angoscia nevrotica, la Klein compie un’operazione analoga tramite la sua conversione in angoscia di tipo psicotico.

E’ da notare che Money-Kyrle (1955), unico kleiniano che non accetta la teoria di Eros e Thanatos, pone l’accento sul fatto che quanto pensiamo in proposito non è pura metapsicologia avulsa dalla pratica, ma influenza profondamente le nostre ipotesi di lavoro e la nostra tecnica clinica.

 

Bion (1959, 1961, 1962) accetta come vero l’assunto kleiniano, connettendo, però nella formulazione del modello contenuto-contenitore (contained-container), l’ipotetica angoscia del lattante di star per morire con l’istinto di morte e con la funzione della reverie materna.

Ci troviamo qui di fronte al divario, segnalato da Stern (1985) fra il "bambino clinico" della psicoanalisi e il "bambino osservato" della ricerca empirica. Sostenere che il lattante senta di star per morire e proietti questa angoscia nella madre è una costruzione che non poggia su alcuna evidenza empirica; tale affermazione sembra più verosimilmente essere la proiezione della fantasia e della paura dell’adulto. Ci sono buone ragioni (osservabili) per ipotizzare che sia la madre (o meglio i genitori) a proiettare la propria angoscia di morte nel bambino e che questi ne sia il contenitore, in un primo tempo inconsapevole.

In psicologia evolutiva e in psicoanalisi sono state spesso sottovalutate le implicazioni biologiche del rapporto genitori-figli e in particolare il fatto semplice e banale che se la madre (o chi per essa) non si occupa del suo bambino, questi muore.

Ora la presenza nella madre e nel padre, a livello conscio e preconscio, del rischio della morte reale è quanto le consente di adempiere alla funzione primaria di proteggere la vita del bambino. E’ quindi inevitabile, anzi augurabile, che la madre trasmetta al figlio le emozioni legate ai rischi per la vita, dapprima tramite canali preverbali e poi con le parole.

Ritornando a Bion, egli è consapevole che nulla fa più effetto del trovarsi sempre davanti la probabilità di morire, come dichiara (1976) nell’intervista a A. G. Barnet, parlando della sua esperienza di guerra; tuttavia , tranne il racconto dell’Autobiografia ed alcuni riferimenti sparsi nelle sue opere, lascia nell’ombra il tema della morte che sembra talora ammantarsi della inafferrabilità e inconoscibilità di O. Sono l’idealismo platonico di Bion ed il suo misticismo a non consentire di dare rilievo al corpo e alla sua fine?

 

 

Il sillogismo malato

 

Fatte le riserve appena dette, credo che però Bion abbia elaborato importanti strumenti concettuali con cui affrontare i temi sopraccennati: parte psicotica della personalità, trasformazioni, invarianza, cambiamento catastrofico.

1) Quindi svilupperò l’ipotesi che alla base della psicopatologia e alla base degli aspetti psicotici della sanità vi sia come "invarianza" una sofferenza del ben noto prototipo del sillogismo aristotelico:

 

A: tutti gli uomini sono mortali

B: Socrate è un uomo

C: Socrate è mortale

 

2) Inoltre proporrò che tale sofferenza è determinata dalla disattivazione operata dalla parte psicotica della personalità nei confronti dell’apparato per pensare e della realtà;

3) mi soffermerò quindi sul tipo di trasformazioni utilizzate e

4) infine considererò il rapporto fra mutamento catastrofico e paura della morte.

 

Prima di procedere, ricorderò brevemente, per chiarezza, alcune cose a tutti note.

L’attività della parte psicotica della personalità, , si estrinseca, per Bion, in attacchi contro la coscienza, la realtà interna ed esterna e l’apparato mentale. L’uso del termine "attacco" è condizionato dagli assunti teorici di invidia e avidità operanti fin dalla nascita; mentre viene trascurato il diniego (denial), individuato da Freud (1927, 1938) come meccanismo specifico della psicosi, promosso da terrore e impotenza, senza il necessario intervento della ipotetica distruttività primaria.

Userò pertanto il concetto di parte psicotica integrandolo con quello di diniego e impiegherò la distinzione di Bion fra psicotici sani e psicotici matti; mi servirò inoltre il concetto di invarianza per indicare, in senso bioniano, quanto nel processo di trasformazione rimane inalterato rispetto alla situazione originaria O.

 

A questo punto possiamo ritornare al nostro sillogismo e tranquillamente dire che si tratta del ragionamento deduttivo più odiato dall’umanità.

La premessa maggiore ha sinora resistito a tutti gli assalti di confutazione da parte di Popper: e addirittura sorge il dubbio che Popper sia vissuto così a lungo proprio per tentare di confutarla !

Le cose diventano assai più complicate dal punto di vista emotivo, se mutiamo i soggetti di B e C in una nuova formulazione:

 

A: tutti gli uomini sono mortali

B: io sono un uomo

C: io sono mortale

 

La struttura formale del sillogismo (Barbara) non è cambiata, muta invece la struttura emotiva dello stesso: possiamo accettare con riluttanza e dolore oppure con indifferenza, che Socrate sia mortale, ma è assai più difficile venire a patti con l’inevitabilità della propria fine, ultima verità assoluta e certa.

A questo punto suggerisco che la parte psicotica della personalità impegni tutte le sue energie allo scopo di disattivare l’apparato per pensare e alterare le due premesse del sillogismo sacrificando in tal modo la verità.

Mi spiegherò meglio con tre brevi esempi clinici.

Caso A

Il paziente racconta che all’età di circa 4 anni, pochi giorni dopo la morte di un conoscente, chiese alla madre se tutti gli uomini, sarebbero inevitabilmente morti. Quando gli fu risposto che così era, scoppiò in un pianto irrefrenabile e sconsolato: allora la madre gli raccontò che un giorno tutti sarebbero risorti e la vita sarebbe continuata per l’eternità. Il suo pianto cessò, ma la sua funzione alfa, per quanto debole, non gli impedì di chiedere: "ma sei proprio sicura, mamma?" tuttavia non ebbe il coraggio di insistere e finì per accettare la "bugia". Però non dovette essere molto rassicurato, perchè proprio intorno a quell’epoca cominciò a pensare che da grande avrebbe fatto il medico per vedere da vicino come stavano realmente le cose. Da adulto i primi anni della professione furono piuttosto disastrosi: la premessa maggiore del sillogismo sembrava tenere saldamente, perchè molti pazienti morivano e nessuno di loro resuscitava.

Decise di abbandonare la medicina del corpo e di dedicarsi a quella della psiche (all’epoca era ancora dualista): difatti come è noto, gli psichiatri annoverano bassa mortalità fra i propri pazienti. Però l’inquietudine di fondo della sua "anima" non trovava pace: le speranze si riaccesero quando studiò che Freud interpretava la paura della morte come equivalente dell’angoscia di castrazione e fu ancora più confortato quando lesse che la Klein sosteneva che la paura di morire fosse legata a un ritorno persecutorio dell’istinto di morte. Questi gli parvero concetti molto interessanti: pensò che se si fosse sottoposto ad un’analisi, pur non potendo evitare la fine, almeno la sua paura sarebbe scomparsa. Diventò anche psicoanalista ritenendo che avrebbe ottenuto un vantaggio aggiuntivo dal fatto che gli analisti hanno, ancor meno degli psichiatri, pazienti che muoiono e sono di solito immuni dalla malsana abitudine, contrabbandata come curiosità scientifica, di fare indagini catamnestiche (follow-ups).

 

Caso B

Il paziente nacque da un’antica e nobile famiglia. Visse piuttosto isolato nel suo palazzo sino all’adolescenza, epoca in cui si verificarono alcuni episodi che ebbero un impatto devastante sulla sua vita.

Un giorno, uscito di casa accompagnato dall’istitutore, incontrò per la prima volta un uomo dalla schiena incurvata che incedeva a fatica: era un vecchio. Un’altra volta si imbattè in un uomo che respirava a malamente: si trattava di un malato. Ma il terzo episodio fu ancora più traumatico: durante una passeggiata si trovò in mezzo ad una folla che accompagnava un morto. In tutte e tre le circostanze, molto atterrito, chiese all’istitutore se la medesima sorte sarebbe toccata anche a se stesso. Alla risposta affermativa fu colto da un’indicibile angoscia e tristezza. Come era possibile sfuggire a tale destino? Cominciò a pensare che dedicandosi all’ascesi, avrebbe potuto evitare gli aspetti dolorosi della vita.

Ebbe così inizio un periodo piuttosto allarmante: abbandonata la ricca casa paterna, vagava per strada sottoponendo il proprio corpo ad ogni sorta di mortificazione: flagellazioni e rifiuto del cibo fino a giungere ad uno stato di gravissima denutrizione. Dopo aver sperimentato quasi la certezza di essersi liberato dal corpo ebbe una certa ripresa, con la sensazione di essere divenuto un Illuminato.

Invece della quasi distruzione si preoccupò di mantenere il proprio corpo al minimo livello vitale, credendo che una giusta via intermedia di contemplazione ascetica gli avrebbe consentito la liberazione dal ciclo delle nascite e delle morti e spalancata la porta eterna del Nirvana. A questo punto avrete capito che Budda è il nome del paziente fittizio.

 

 

Caso C

 

Una paziente mi racconta che il proprio figlio di 5 anni, da dopo la scomparsa di un caro amico di famiglia, ha cominciato a mangiare poco e svogliatamente, nonostante i suoi tentativi di imboccarlo. "Perchè non vuoi mangiare?" gli chiede "Perchè non voglio crescere, crescere significa diventare adulti e gli adulti poi muoiono".

 

Comune caratteristica ai tre esempi è la situazione O di partenza: l’impotenza, la paura e la disperazione legate alla condizione di mortalità: le difese psicotiche possono compendiarsi nella falsificazione delle due premesse del sillogismo: "non è vero che tutti gli uomini sono mortali" e "non è vero che sono un uomo".

La parte psicotica della personalità elabora, sacrificando verità e realtà, trasformazioni in allucinosi collettive e individuali che presentano tratti suggestivi di sovrapposizione e che hanno come elemento comune l’esaltazione ma più spesso la mortificazione del corpo sino ad arrivare in casi estremi al diniego totale di esso come nel delirio di Cotard: non ho un corpo, ho solo una parte di corpo, o perversamente il corpo che ho non è quello mio, non sono ancora nato, sono ancora un bambino o un adolescente. In queste coniugazioni si possono riconoscere le invarianti delle mutevoli manifestazioni psicopatologiche.

 

Si potrebbe dire che lo psicotico sano di mente utilizza le trasformazioni allucinosiche pret-à-porter della cultura (religioni, miti, teorie pseudoscientifiche) di natura metafisica e quindi metaempirica, mentre lo psicotico matto, partendo dallo stesso O, opera trasformazioni caratterizzate da un grado minimo di condivisione ufficiale (miti, religioni e teorie pseudoscientifiche private).

Supponiamo per esempio che io vi racconti di un mio amico che riesce a moltiplicare i pani e i pesci: penserete di avere a che fare con uno psicotico matto e quasi sicuramente qualche psichiatra presente in sala sentirà il bisogno di intervenire. Supponete invece di ascoltare la stessa affermazione la domenica in una chiesa: avrete a che fare con uno psicotico sano per il quale nessun psichiatra sentirà il bisogno di scomodarsi.

La psicosi collettiva è quindi il prezzo che lo psicotico sano paga per evitare di diventare matto.

A questo riguardo vorrei citare un passo di Bion (1970), la favola dei bugiardi, che trovo di un’affascinante pregnanza rispetto al tema che sto trattando. "I bugiardi diedero prova di coraggio [....] nella loro opposizione agli scienziati che [...] minacciavano di privare [gli uomini] di ogni minima possibilità di autoinganno [lasciandoli] senza la protezione naturale necessaria affinchè la loro salute mentale fosse preservata dall’impatto della verità.

[...] la razza umana deve la propria salvezza a quella schiera piccola di dotati bugiardi [...]. Persino la morte fu negata e furono utilizzate le più ingegnose argomentazioni per appoggiare proposizioni evidentemente ridicole affermanti che il morto continuava a vivere felicemente." (p. 137-138)

 

 

Le trasformazioni della paura della morte

 

Come è noto, in Bion (1965) il segno O è riferito alla realtà ultima, alla verità assoluta, alla "cosa in sè" in senso kantiano e nella clinica psicoanalitica è usato in riferimento a ciò che il paziente ignora e a ciò che l’analista ignora del paziente.

La situazione originaria O va incontro a varie trasformazioni, fra cui quelle in allucinosi: esse comprendono un’ampia gamma di fenomeni, non necessariamente accompagnate da allucinazioni e sono una funzione della parte psicotica della personalità.

La mia tesi è che le principali distorsioni delle due premesse del sillogismo e in particolare quelle delle religioni e dei miti siano trasformazioni in allucinosi: non credo che Bion sarebbe affatto d’accordo con questa tesi, eppure sviluppando sino in fondo le sue argomentazioni non si può giungere che a questa conclusione.

Come ricorderete per Bion un sistema di allucinosi ha la sua base sulla no-thing, sull’assenza cioè dell’oggetto: la parte psicotica della personalità trasforma la situazione reale "Qui l’oggetto ora non c’è" in una fittizia "Qui l’oggetto ora c’è". Uno spazio-tempo vuoto viene psicoticamente trasformato in uno spazio-tempo occupato.

A mio parere, nel caso di morte dell’oggetto, avviene una trasformazione simile: lo spazio lasciato vuoto per sempre dall’oggetto viene ricostituito con " (o meglio nell’aldilà) c’è per sempre".

Vorrei sottolineare che il sistema in allucinosi è sotteso da un secondo polo che si impernia sulla prospettiva, variabile secondo le circostanze, ma assolutamente certa, della scomparsa del soggetto: il no-me (no-me), con l’impotenza e il terrore che l’accompagnano. "Qui non ci sarò più" si trasforma in "Aldilà ci sarò sempre": è l’operazione compiuta dalla madre del bambino nel Caso A. con la splendida "bugia", che in un colpo solo ricostituisce uno spazio animato da oggetti e riapre il tempo finito alla dimensione dell’eternità.

 

Cambiamento catastrofico e paura della morte

Bion (1965) prende in considerazione un quarto tipo di trasformazioni, quelle in O: esse sono strettamente legate con la crescita mentale, con il cambiamento, con il divenire. Con l’essere ciò che si è.

Quando le trasformazioni in allucinosi diventano, per via del lavoro analitico, trasformazioni in O ciò significa che il paziente esperimenta per esempio il sentirsi pazzo, sentirsi un assassino. Bion sottolinea inoltre come questo divenire O sia altamente temuto e rappresenti fonte di notevole resistenza al trattamento analitico. Inoltre (1970) considera che "l’evoluzione mentale o crescita è catastrofica e senza tempo" (p.147) E ancora in Attenzione e interpretazione (1970) egli evidenzia l’odio per la crescita e la maturazione, aggiungendo che "probabilmente è inutile chiedersi perchè questo cambiamento debba essere doloroso" (p. 74-75).

Io credo invece che è assai utile, proprio per le riverberazioni sul piano clinico e terapeutico, chiedersi perchè crescita e maturazione siano così tenacemente combattuti.

Poichè, come ho cercato di mostrare, la maggior parte delle trasformazioni in allucinosi riguarda la condizione mortale e angosciante dell’uomo esiste un loro specifico divenire in O, che è rappresentato dalla consapevolezza emotiva della propria mortalità. Essere ciò che si è: mortali innanzitutto. Credo che questa sia la trasformazione altamente temuta per eccellenza e che ad essa venga opposta la principale resistenza del trattamento psicoanalitico.

Il parlare di crescita, maturazione e cambiamenti mentali e considerare questi come i soli "oggetti psicoanalitici" favorisce lo splitting mente/corpo relegando quest’ultimo in posizione periferica.

Cambiare e crescere significa accettare anzitutto i cambiamenti in crescita del proprio corpo (non è casuale che molti disturbi psicopatologici esordiscano nell’adolescenza) e quelli in decrescita (si veda l’analoga incidenza dell’età di mezzo).

Ricordate che cosa diceva il bambino della mia paziente sul perchè non voleva crescere? In questo mio modo di intendere, il mutamento catastrofico, che già Bion connette con l’evoluzione e col cambiamento, è da porre in relazione con la prospettiva di rottura o la rottura della categoria allucinosica dell’eternità.

Con la rottura in altre parole del tempo circolare (che è tempo psicotico) e della coazione a ripetere che è sua figlia. Mutamento catastrofico quando l’esame di realtà del nostro corpo e di quello altrui rimettono in moto le lancette del tempo lineare e la loro corsa impazzita ci fa presagire con paura e dolore la verità ultima.

 

Nel concludere vorrei ricordare la ben nota massima di Montaigne: "chi insegnasse agli uomini a morire, insegnerebbe loro a vivere". E’ dalla dolorosa assunzione emotiva della propria transitorietà che può nascere la passione per la vita.

Ma potremo davvero fare a meno delle "bugie"? Forse no: se è così, allora vi chiedo scusa di tutte le "bugie" che vi ho raccontato in questa mia relazione.


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