AFFINITÀ E CORRISPONDENZE NEI CONTRIBUTI DI BION E DI LACAN INERENTI LA TECNICA PSICOANALITICA

Dott. Maura Monguzzi

Potrebbe apparire curioso l'affiancare le riflessioni di due psicoanalisti per molti versi tanto distanti ma in effetti, nonostante le vistose differenze concettuali e la diversità di matrici di riferimento culturali sulle quali poggia e si radica il loro pensiero, sono più d'uno gli aspetti che avvicinano i contributi portati da Wilfred Ruprecht Bion e da Jacques Lacan alla psicoanalisi.

Si può innanzitutto ricordare il fatto che in entrambi gli autori vi è uno sforzo teso a creare un particolare tipo di linguaggio specificamente psicoanalitico, anche se le motivazioni che hanno condotto a questa scelta e le soluzioni che sono state trovate sono in realtà molto differenti; in secondo luogo è possibile constatare la comune aspirazione verso una matematizzazione della psicoanalisi; si può inoltre notare che viene dedicata una particolare attenzione allo studio del funzionamento dei gruppi ed al loro utilizzo pratico, anche se ciò viene fatto con declinazioni differenti dato che in Bion tale interesse verte principalmente sul livello psicoterapeutico, mentre in Lacan si focalizza in modo quasi esclusivo sulla possibilità di mettere a frutto le potenzialità didattiche possedute dalla situazione gruppale mediante quel peculiare tipo di piccolo gruppo di lavoro che l'autore ha definito con il termine di "cartel" e che ha ritenuto sia da considerarsi come la modalità privilegiata per la formazione degli aspiranti psicoanalisti.

Le produzioni di questi due autori offrono dunque interessanti analogie e convergenze, pur se inserite in impianti teorici notevolmente differenti, che si presentano come più chiaramente evidenti soprattutto nel periodo della loro piena maturità teorica e d'accumulata esperienza sia a livello di pratica terapeutica che di preparazione teorico-clinica dei futuri psicoanalisti. Dato che intendo porre in rilievo i punti di contatto esistenti, farò quindi riferimento all'ultima fase della loro teorizzazione, all'interno della quale sono presenti le maggiori affinità e corrispondenze.

È soprattutto sulle analogie in merito a ciò che riguarda più strettamente la riflessione sulla pratica clinica che intendo soffermarmi.

Si può cominciare dal fatto che entrambi gli autori evidenziano la necessità di non porre il soggetto in analisi in una posizione passiva, ma di far sì che possa essere lui il principale attore del lavoro psicoanalitico. A questo proposito, sia Bion che Lacan hanno richiamato l'attenzione sul fatto che esiste una netta differenza tra una pratica di tipo educativo e quella della psicoanalisi: nella cura psicoanalitica è il soggetto sofferente, che si rivolge in cerca di aiuto al professionista, il vero depositario di un sapere utile a farlo uscire dalla situazione di disagio (in questo senso il ruolo dello psicoanalista all'interno della cura analitica è più simile a quello di un compagno di viaggio, di un testimone, che a quello di un insegnante, di una guida che già conosce il tragitto che si dovrà compiere), e quindi vanno di conseguenza intese come modalità di approccio inadeguate quelle che, più o meno esplicitamente, mettono in atto una sorta di rieducazione sulla scorta del modello teorico di riferimento, inteso in qualche modo come intrinsecamente portatore di risposte adeguate alle necessità del soggetto. In Lacan possiamo trovare conferma di questo modo di porsi soprattutto all'interno della teorizzazione dei quattro discorsi, nei quali l'autore pone significativamente, in quello dell'analista, non il sapere (come al contrario avviene nel discorso del maître) ma l'oggetto causa del desiderio dell'analizzante nella posizione dell'agente. In ciò si pone in luce uno dei cardini dell'analisi lacaniana consistente nel suo versante etico di profondo rispetto per la singolarità del soggetto e della sua verità, aspetto che, al contrario, Lacan trovava gravemente carente in molte diverse psicoanalisi post-freudiane che in fondo, anche se in maniere differenti, tendevano, più o meno consapevolmente, a porre l'analista come una sorta di modello da fornire al paziente, cui si sperava che lui potesse adeguarsi conformandovisi, per poter in tal modo uscire dalle difficoltà che l'avevano condotto al ricorso alla cura. La medesima attenzione alla necessità del rispetto della singolarità del paziente è presente in Bion, ad esempio, laddove mette in guardia gli psicoanalisti dall'adagiarsi nel dare per scontato il fatto che l'uso del controtransfert sia da intendersi quale modalità privilegiata nel lavoro psicoanalitico, ritenendone ingenuamente assodata l'adeguatezza e l'efficacia terapeutica; Bion infatti afferma che

"Le nostre interpretazioni analitiche che sono stimolate dal controtransfert hanno molto a che fare con l'analista. Se l'analizzando è fortunato hanno qualcosa a che fare anche con lui. Prima o poi un'analisi basata sul controtransfert finisce in un disastro, o comunque fallisce perché tutte le interpretazioni hanno molto a che vedere con l'analista e poco a che vedere con il paziente".

Quest'ultima affermazione ha interessanti analogie con quella di Lacan definente il controtransfert come l'"imbecillità" dell'analista, intendendo con ciò sostanzialmente riferirsi a quelli che sono i suoi limiti, le sue incapacità, che si frappongono fra la sua volontà di mettere in atto una pratica che sia fino in fondo analitica e le sue concrete possibilità di offrire una disponibilità d'ascolto in ogni suo versante libera.

Queste prese di posizione dei due autori riconducono a quello che era stato il modo di intendere il controtransfert in Freud, che lo configurava alla stregua di una sorta di punto cieco delle possibilità interpretative dell'analista, costituito dalle parti non analizzate della sua personalità che, essendo fuori dal suo controllo, erano tali da condurlo a non poter correttamente vedere ed analizzare quegli elementi della personalità del paziente che in qualche modo entravano in stretto contatto col suo rimosso: veniva cioè inteso come ciò che poteva compromettere una piena e libera disponibilità terapeutica dell'analista all'interno della cura psicoanalitica proprio perché non gli consentiva di poter chiaramente mettere a fuoco e sottoporre ad analisi ciò che troppo da vicino toccava suoi problemi inconsci ed irrisolti. Freud infatti, già nel 1910, in occasione del secondo Congresso internazionale di psicoanalisi, tenutosi a Norimberga, affermava:

"Abbiamo acquisito la consapevolezza della "contotraslazione" che insorge nel medico per l'influsso del paziente sui suoi sentimenti inconsci, e non siamo lungi dal pretendere che il medico debba riconoscere in sé questa controtraslazione e padroneggiarla. Da quando è aumentato il numero delle persone che esercitano la psicoanalisi e si comunicano reciprocamente le proprie esperienze, abbiamo notato che ogni psicoanalista procede esattamente fin dove glielo consentono i suoi complessi e le sue resistenze interne e pretendiamo quindi che egli inizi la sua attività con un'autoanalisi e la approfondisca continuamente mentre compie le sue esperienze sui malati. Chi non riesca a concludere nulla in siffatta autoanalisi, può senz'altro abbandonare l'idea di essere capace di intraprendere un trattamento analitico sui malati."

Pur in questa comune continuità con Freud e pur se sia in Bion che in Lacan è per un'esigenza di rispetto della singolarità del paziente e del fatto che non è fuori di lui che vada ricercato il senso della sua verità, si pone però un'importante differenza nei punti di vista dei due autori in merito alle ragioni della loro critica all'utilizzo del controtransfert, in questo le loro posizioni divergono radicalmente.

Lacan intende affermare che è una pura illusione il ritenere che sia possibile il fatto di poter esperire le emozioni ed i vissuti dell'analizzante e che anzi il porre ciò a base del lavoro psicoanalitico finisce in realtà per comportare una mancanza di rispetto per il soggetto, che viene in un certo senso spinto a conformarsi al sentire dell'analista piuttosto che venir aiutato a trovare la realtà del proprio desiderio e del proprio discorso, dei quali è lui solo il vero detentore e depositario. L'utilizzo del controtransfert, all'interno della riflessione di Jacques Lacan, viene inteso dunque nel senso di un proporsi dell'analista come maître che, se può essere sicuramente una situazione gratificante per il terapeuta che in tal modo si viene a situare in quella posizione di potere nella quale l'analizzante lo colloca naturalmente all'inizio del suo percorso terapeutico, non è certo il ruolo adeguato e corretto nel quale lo psicoanalista dovrebbe accettare di stabilirsi: la prima fase del percorso della cura, così come Lacan la intende, ha anzi proprio il senso di far sì che il paziente possa giungere a rendersi conto del fatto che il "soggetto supposto sapere" non è in realtà il detentore del sapere e della verità, che egli dovrà giungere a rintracciare in se stesso.

La critica di Bion all'utilizzo del controtransfert è invece rivolta principalmente a chi lo intendeva quale modalità che, collocabile nel suo sorgere a livello preconscio, veniva vista come padroneggiabile dal terapeuta a livello cosciente, consapevole, per cui si potrebbe schematizzare in questo modo la situazione terapeutica così come la concepivano gli psicoanalisti che ne facevano il fulcro del loro lavoro di analisi: il contenuto comunicato dal paziente suscita nel terapeuta associazioni, ricordi, fantasie, ecc. che, elaborati mediante l'analisi del suo controtransfert, consentono al terapeuta di fornire al paziente un'interpretazione intesa come adeguata. Per Bion questo schema della relazione terapeutica è fallace per la ragione che non è tanto del paziente che parla l'interpretazione data, quanto dell'analista stesso: il rischio che sia proiettiva di vissuti, sensazioni, emozioni dell'analista è davvero troppo alto perché la si possa vedere come realmente attinente a ciò che il paziente stava comunicando.

Se si concepisce però quello controtransferale come un processo inconscio, le cose stanno ben diversamente. Qui è forse il caso di fare un breve cenno a quello che è il modello di mente che Bion propone, va infatti ricordato che, nel suo costituirsi ma non solo, la mente si dà per Bion come un fenomeno interpersonale: il sorgere del pensiero si ha nell'assenza dell'oggetto, ma è solo mediante la rêverie della madre e l'azione della sua funzione , che vicaria quella non ancora in atto del bambino, che può strutturarsi quel "contenitore per pensare i pensieri" indispensabile alla vita psichica del soggetto. L'individualità si viene dunque a costituire a partire da un originario livello, del quale madre e bambino compartecipano, che Bion denota col termine di "protomentale", la cui azione non si esaurisce però esclusivamente nel delicato processo del costituirsi del pensiero: la sua tangibile presenza è constatabile mediante l'osservazione delle situazioni nelle quali il soggetto si trova in un gruppo, inserito in una complessa rete di comunicazioni che non si danno solo a livello cosciente e manifesto ma anche a livello inconscio, come testimonia il sorgere di quegli "assunti di base" su cui Bion ha saputo attrarre la nostra attenzione. L'unisono con O (che è ciò che consente la trasformazione che, mediata dal "linguaggio dell'effettività", esprime l'esito di un lavoro, specificatamente analitico, che ha saputo giungere a quelle radici profonde presenti in O che parlano della verità del soggetto) è qualcosa di ben diverso da un modo di intendere il controtransfert quale modalità preconscia, ma al tempo stesso è necessario riconoscere che fuori dall'area controtransferale diviene ben difficilmente collocabile. Il controtransfert si configura allora come un fenomeno inconscio, come quell'evidenza sensoriale di cui Bion parla, qualcosa di non facilmente verbalizzabile o trasformabile in pensiero cosciente, ma pur tuttavia estremamente vivido nel suo manifestarsi: la sua presenza è qualcosa che si sente, si avverte, è un sentirsi preso nel sentire dell'altro, un sentire-con, un unisono appunto, un vibrare insieme della stessa nota, seppur suonata su corde diverse. Il tipo di comunicazione che si stabilisce fra analista e analizzante è dunque tale per cui i due soggetti coinvolti non vanno intesi come due entità nettamente divise, quanto piuttosto come un'unica mente: terapeuta e paziente sono compartecipi della medesima area protopsichica, per il breve istante nel quale questo contatto, l'unisono con O, si verifica. Possiamo quindi intendere la critica di Bion all'utilizzo del controtransfert come diretta in effetti soltanto ad un particolare modo di intendere tale dinamica psichica, cioè quello che la colloca a livello preconscio (anziché, come sarebbe più corretto, a livello inconscio) e suscettibile di divenire cosciente.

Sempre per quanto riguarda la necessità di non porre il soggetto in una posizione passivizzante è importante ricordare almeno il fatto che sia Lacan che Bion propongono un utilizzo molto parsimonioso dell'interpretazione. Ciò si esplicita, in Lacan, nel sottolineare il fatto che l'interpretazione deve sempre rimanere ben lungi dall'essere intesa come tendenzialmente esaustiva, e che anzi il fatto di pretendere di voler cercare di dire al soggetto ciò che significa un determinato sogno, lapsus, atto mancato, sintomo o fantasia, molto spesso può essere più di ostacolo che di vantaggio provocando, in particolare, due tipi di risposte indesiderate da parte dell'analizzante. Può innanzitutto accadere che egli mobiliti le sue tendenze difensive, allungando dunque la durata del lavoro che sarà necessario intraprendere per portare a conclusione positiva la sua cura analitica o addirittura mettendo in pericolo la prosecuzione della stessa; in secondo luogo, può avvenire una troppo repentina adesione, da parte del paziente, alle interpretazioni dello psicoanalista, fatto che rischia di generare un blocco di ogni possibile concreto sforzo personale del soggetto per giungere realmente ad assumere consapevolezza del suo desiderio: il terapeuta si viene quindi a trovare nella scomoda situazione di essere lui stesso ad offrire la possibilità di espressione ad una più subdola e meno appariscente manovra elusiva messa in atto inconsapevolmente dal soggetto per proteggersi dall'affrontare i suoi problemi inconsci, dato che la sua interpretazione viene utilizzata per ingessare in una definizione fissa ed immobile qualcosa che, se invece fosse stato lasciato come ancora problematico e necessitante di una spiegazione, sarebbe stato in grado di far sì che fosse l'analizzante a mettersi al lavoro, non attendendo in una situazione di domanda nei confronti del terapeuta dal quale vorrebbe che senza sforzo personale potessero giungere le risposte, ma mettendo in moto, in una serie di rimandi e metonimie, il significante in gioco, che in tal modo potrebbe condurre il soggetto, nel tentativo di capire, ad una ricerca attiva, della quale si farebbe carico in prima persona, intraprendendo così un percorso veramente analitico che, passando attraverso l'Altro ma ponendo il proprio desiderio nella posizione dell'agente, potrebbe consentire di giungere ben oltre rispetto a dove un'interpretazione puntuale dell'analista avrebbe mai potuto arrivare. Tale modo di guardare al problema dell'interpretazione in analisi è ben messo in luce dal metodo introdotto da Lacan della seduta a tempo variabile, grazie alla quale lo psicoanalista può interrompere la situazione analitica su un significante pregnante messo in gioco dal soggetto: l'interruzione viene intesa come un'interpunzione nel tessuto del discorso, che non mira a fornire risposte ma che semplicemente indica il punto nel quale è necessario il lavoro dell'analizzante volto a dipanare le trame del suo dire per potervi ritrovare le tracce della sua verità.

La stessa necessità della non esaustività dell'interpretazione che abbiamo visto in Lacan la si ritrova vivamente presente in Bion, anche se in lui non esiste un così marcato richiamo a che il lavoro sia esclusivamente del soggetto in analisi (il che sarebbe qualcosa di inconcepibile visti i presupposti sopra accennati per i quali i momenti più significativi del percorso analitico sono quelli nei quali analista e paziente condividono la stessa area protopsichica nell'unisono con O). Bion infatti sottolinea la necessità che l'interpretazione non debba mai essere saturante, nel senso che quando si presenta come troppo completa e precisa non è tale da poter produrre una trasformazione poiché in questo modo si offre al paziente qualcosa sul quale egli non ha più niente da aggiungere, e che non può che coinvolgere la sua conoscenza (K), senza metterlo in contatto con O (che può venir inteso come l'analogo del Reale lacaniano, all'interno della teorizzazione bioniana), che è invece l'obiettivo cui l'analisi tende. L'interpretazione insatura, mancante, ha invece la possibilità di poter toccare nel vivo il soggetto aiutandolo a mettersi in un atteggiamento tale che favorisca la possibilità di essere "all'unisono con O", che è la situazione nella quale analista ed analizzante possono giungere a sfiorare un significante che accenna e rimanda a un qualcosa di estremamente pregnante per il soggetto, evento questo capace di mettere in moto la trasformazione la quale, a sua volta, può essere intesa come un indicatore della conquista, da parte del soggetto, di una maggiore libertà. A tale proposito è interessante ricordare l'utilizzo, che Bion introduce nel lavoro analitico, di trame narrative in vece della classica modalità d'interpretazione kleiniana: l'analista non deve in questo caso svolgere una funzione di tipo ermeneutico, svelando al soggetto il significato profondo presente nelle sue parole (operazione che rischia troppo spesso di essere riduttiva o fraintendente) ma, sulla scorta del dire del soggetto e dei richiami che può generare, si propone di esprimere con altre parole ciò a cui rinvia quanto il soggetto esprime. Attraverso una narrazione per molti versi simile a quella dei miti (che non a caso Bion intende quali strutture della mente) o delle favole, cioè mediante una modalità capace di offrire all'analizzante una diversa conformazione nella quale possa trovare manifestazione il contenuto da lui comunicato, si consente che sia egli stesso a ritrovare il senso profondo di ciò che andava dicendo, grazie ad un processo che possiamo assimilare a quello della "ristrutturazione gestaltica", cioè il vedere, organizzati in altro modo, elementi già precedentemente presenti, seppur non riconosciuti, nella forma originaria offerta al terapeuta. Si tratta cioè di un alludere, non di un interpretare, fornendo in tal modo un'occasione che renda possibile all'analizzante stesso di avvertire quanto di lui dicano le parole dell'analista, senza però porlo come mero fruitore passivo del sapere dello stesso, predisponendo una situazione atta a che divenga possibile rintracciare la presenza, all'interno di una diversa trama narrativa, di qualcosa che già si trovava nel contenuto della comunicazione ma che, pur possedendo caratteri di vitale importanza, nella strutturazione originaria non aveva modo di divenire direttamente fruibile per il soggetto: si tratta in sostanza di predisporre le condizioni atte a far sì che il soggetto possa divenire in grado di cogliere o intuire elementi di ciò che ha a che fare con la sua verità, ma consentendogli di essere lui stesso a rintracciarli e riconoscerli.


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Maura Monguzzi


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