Gianni Nebbiosi & Romolo Petrini

 

Il significato teorico e clinico del concetto di “senso comune” nell’opera di Bion.

 

Abstract

 

In questo lavoro abbiamo messo in evidenza il grande valore teorico e clinico del concetto bioniano di senso comune. A questo fine abbiamo chiarito il doppio significato che Bion gli attribuisce: ‘senso’ della correlazione fra le percezioni sensoriali, e ‘senso’ della relazione fra l’individuo e il gruppo. Abbiamo quindi passato in rassegna le importanti implicazioni del S.C. (e del concetto di pubblic-azione) nell’esperienza clinica, con particolare riferimento alla posizione dell’analista, alla comunicazione, ed all’attività interpretativa. Abbiamo poi preso in esame la controparte affettiva del senso comune mediante i concetti di comunicazione e di correlazione; proprio quest’ultimo tema ci è servito per paragonare i concetti di S.C. e fatto selezionato. Inoltre abbiamo svolto un’ampia disamina del S.C. come concetto cerniera tra i concetti di narcisismo e social-ismo. Concludiamo con una breve nota sulla funzione a, la mitopoiesi ed il S.C., e con la definizione bioniana di mito come “non-senso comune”.

 

In questo lavoro ci proponiamo di chiarire ed approfondire il significato di un concetto bioniano che a noi pare fondamentale: il concetto di senso comune [common sense]. Questo concetto - assai poco studiato nella lettera-tura che fa riferimento al pensiero di Bion - ci è sembrato essenziale per l’approfondimento di alcuni aspetti teorici (la relazione tra narcisismo e social-ismo, la pubblicazione) e teorico clinici (opacità di memoria e desiderio) del pensiero bioniano.

Va detto, innanzitutto, che al termine senso comune [d’ora in avanti S.C.] Bion attribuisce due significati (che possono essere tra loro articolati).

1.1 - Nell’accezione più centrata sul soggetto e la sua esperienza percettiva, Bion, in Elementi della psicoanalisi, definisce il S.C. come il “senso” che è comune a più di un senso, a più di una percezione sensoriale:

“Come criterio per definire un’esperienza sensibile, propongo il senso comune nel significato che gli ho attribuito altrove, e cioè un certo “senso” che è comune a più di un senso. Riterrò che un oggetto sia percepibile dall’indagine psicoanalitica, se, e soltanto se, esso soddisfa condizioni analoghe a quelle che vengono soddisfatte quando la presenza di un oggetto fisico è confermata dalla prova di due o più sensi. […] La correlazione così stabilita permette di affermare che il termine “senso comune” caratterizza la propria credenza che quel dato oggetto sia una pietra: e che l’opinione che esso sia una pietra è comune ai propri sensi e che perciò è un’opinione del senso comune, adoperando l’espressione “senso comune” con una precisione maggiore di quella che ha nel linguaggio di ogni giorno.” (Bion 1963, p.18-19, corsivo nostro)

Questo concetto era stato già avanzato da Bion nel suo lavoro Una teoria del pensiero (presentato al Congresso di Edimburgo del 1961 e ripubblicato in Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico):

“Se invece non si riesce a portare a compimento una congiunzione tra i vari dati sensoriali, a raggiungere cioé una sensazione di coerenza tra i vari sensi [a commonsense view] si prova allora uno stato di debilitazione: questo fatto suggerisce che la carenza di verità sia qualcosa di molto simile alla carenza alimentare.”1 (Bion, 1967, p.182, corsivo nostro)

Un efficace esempio “in negativo” di questo primo significato di S.C. si trova all’inizio di Trasformazioni. L’esempio chiarisce come, secondo Bion, in assenza di una correlazione fra i sensi sia impossibile parlare di S.C.:

“Supponiamo ora di osservare un tratto di strada ferrata che si estende a perdita d’occhio in linea retta. Allora, si vedranno convergere le due linee dei binari. Sappiamo che, se dovessimo dimostrare la convergenza risalendo i binari, la convergenza non sarebbe confermata. Ma se percorressimo un tratto abbastanza lungo, e poi guardassimo indietro il cammino percorso, la convergenza apparirebbe dietro di noi e sarebbe confermata dal nostro senso visivo: le due linee parallele si incontrano in un punto. Dov’è allora qusto punto? Una teoria spiegherebbe l’incontro apparente come una illusione ottica. Propongo di non accettare questa spiegazione, perché in un ambito in cui si usa esclusivamente il senso della vista, non sono utilizzabili correlazioni basate sul senso comune […]”. (Bion, 1965, p.10, corsivo nostro)

1.2 - Abbiamo scelto di riportare subito accanto a questo primo significato una relazione di grande importanza istituita da Bion secondo cui le emozioni svolgono nella psiche una funzione simile a quella delle percezioni in relazione agli oggetti situati nello spazio e nel tempo e che, quindi, la controparte del S.C. - quando si considerano le emozioni - è un modo comune di vedere le emozioni:

“Le emozioni svolgono, per la psiche, una funzione simile a quella che i sensi svolgono in relazione agli oggetti situati nel tempo e nello spazio. Ciò vale a dire che, nella conoscenza personale, la controparte del modo di vedere del senso comune [“Commonsense view”, visione della comunanza delle percezioni sensoriali] è il modo di vedere delle emozioni comuni [“Common emotional view”, visione della comunanza fra le emozioni]; se il modo di vedere un oggetto che è odiato può essere unito al modo di vedere lo stesso oggetto quando è amato, e questa unione conferma che l’oggetto esperito per mezzo di emozioni differenti è lo stesso oggetto, allora si fa esperienza di un senso di verità. Viene stabilita una correlazione”2 (Bion, 1967, p.182, traduzione, e corsivi nostri)

Più avanti riprenderemo in considerazione questo punto. Per ora ci basta ribadire: a) che il S.C. in questo primo significato sta ad indicare la sensazione della comunità dei sensi (la vista, l’udito, il tatto etc. ci dicono la stessa cosa); b) che la controparte del S.C. del mondo emotivo si ha quando un oggetto viene esperito per mezzo di emozioni differenti (per esempio il fatto di amare ed anche odiare una stessa persona ci aiuta a fare esperienza della verità del nostro rapporto con quella persona, e quindi a conoscerla - e conoscerci - meglio).

 

1.3 - In Cogitations troviamo una definizione di S.C. che articola il significato che abbiamo appena esposto ad un secondo significato che istituisce la relazione tra individuo e gruppo

“[…] la natura del senso comune al quale faccio ricorso e al quale, in conformità con le opinioni di una rilevante scuola di filosofia alla quale aderisco [P. Bion Talamo avanza qui la fondata ipotesi che Bion si riferisse alla scuola neo-kantiana], accordo un ruolo estremamente importante. Per il momento […] mi accontenterò solo di operare una parziale limitazione del termine, sì da intendere con esso soltanto quell’aspetto della personalità che costituisce una compattazione di una componente dei sensi, comune a due o più sensi e che, a mio avviso, ha una componente sociale, in analogia a quella che Freud supponeva potesse verificarsi per le pulsioni sessuali e che a me sembra vero per tutte le pulsioni emotive.” (Bion, 1992, p.16-17, corsivo nostro)

Poco più avanti nello stesso testo, Bion definisce meglio questo significato di S.C. che “ha una componente sociale”

“[…]senso comune, vale a dire ad un senso orientato in maniera gruppale o sociale i cui “scopi” vanno al di là dell’individuo. In quanto individuo, devo considerare che cosa il “gruppo” accetterà come esame di realtà prima di poter sentire che la mia opinione ha l’avallo del “mio” senso comune” (Bion, 1992, p.20 )

Una lettura attenta di questo brano mette in evidenza come per Bion esista nell’individuo una componente sociale primaria, e come il S.C. sia il senso di questa relazione primaria col gruppo. Per chiarire ulteriormente la nostra lettura di questo significato di S.C. riportiamo un altro brano che ci sembra ancor più chiaro:

“Se per qualche motivo il paziente non ha queste capacità o una qualche simile serie di capacità che gli consentono di raggiungere un buon grado di subordinazione al gruppo, allora è costretto a difendersi contro la sua paura del gruppo […] tramite la distruzione del suo senso comune o del senso delle pressioni del gruppo su di lui in quanto individuo: Questo è lunico metodo attraverso cui preservare il suo narcisismo. Nella forma estrema di difesa, nello psicotico, il risultato di questi attacchi distruttivi appare come una sovrabbondanza di narcisismo primario. Ma questa è solo un’apparenza: quello che si presuppone essere narcisismo primario deve invece venir riconosciuto come secondario alla paura del “social-ismo”” (Bion, 1992, p.30, corsivo nostro)

In ultima analisi il S.C. è ciò che ci permette di mantenere il contatto con le altre persone. Quando questo contatto ci terrorizza o è disturbato tendiamo ad attaccare e distruggere il S.C. e si hanno megalomania, indolenza o psicosi; se invece questo contatto è tollerabile possiamo comunicare col gruppo e quindi con una conoscenza condivisa.

“La megalomania. La storia di dover essere tutto oltre che di dover avere tutto. Il senso comune produce, da questo punto di vista, uno stato mentale restrittivo; il senso comune è in conflitto con il narcisismo megalomane. Senza il senso comune si può sentire la fantasia come un fatto.

L’indolenza può essere il bisogno di rimanere liberi per poter indulgere alla fantasia: di nuovo, il senso comune è la forza che ostacola tutto questo.” (Bion, 1992, p.24)

Proprio a questo punto è opportuno introdurre il concetto di pubblic-azione e chiarirne il significato in relazione a quello di S.C.

“La pubblic-azione è un elemento essenziale del metodo scientifico e questo vuol dire che il senso comune vi svolge un ruolo vitale. Se per qualche motivo il senso comune è inoperante, l’individuo in cui non opera non potrà pubblicare: un lavoro non pubblicato è un lavoro non scientifico.” (Bion, 1992, p.24)

Vorremmo a questo punto scongiurare la possibilità di un equivoco sottolineando quanto, in Bion, il S.C. sia una componente profonda della personalità; molto lontana quindi dal “buon senso” o, peggio, dal conformismo. Questa posizione di Bion si chiarisce bene considerando, ad esempio, il rapporto che egli vede tra sogni e S.C.:

“Perché accade, allora, che i sogni che raccontiamo, o quelli che ci vengono riferiti sono così spesso in termini di immagini visive? Non è questa una ‘modificazione degli stimoli’ che ci pervengono? E questo potrebbe avere qualcosa a che fare con il lavoro-del-sogno, inteso come il tentativo di raggiungere il livello del ‘senso comune’ come parte della funzione sintetizzante del sogno?” (Bion, 1992, p.49)

Concludendo, il S.C. - nel suo secondo significato - è considerato da Bion come il “senso” del legame col gruppo, con un esame di realtà condiviso.

Considerato in ambedue i suoi significati questo senso ha una funzione fondamentale in quanto dà all’individuo 1) la capacità di sintetizzare le proprie percezioni sensoriali, producendo un senso di coerenza e di armonia nell’esperienza sessoriale soggettiva; 2) la capacità di sentire come condivisibile il proprio esame di realtà, e quindi la capacità di apprendere dalle proprie esperienze in modo comunicabile (“pubblic-are”) al “gruppo”, vale a dire alla comunità degli altri. Anche in questo caso c’è un senso di coerenza che riguarda una certa armonia - o almeno una compatibilità - tra la propria personalità ed il gruppo, la socialità.

Il modo in cui questi due significati si articolano l’uno all’altro è stato espresso da Bion in modo esemplare quando in Cogitations parla della interpretazione e della pubblicazione di una conoscenza privata.

“Quando è che il fatto privato diventa pubblico? Nell’individuo, quando è diventato una questione di senso comune; cioè quando tutti i sensi si combinano a dargli la medesima informazione. Ma tra questi elementi della pesonalità, tra cui faccio rientrare le percezioni sensoriali, vorrei comprendere anche quell’aspetto dei sensi che è in comune con il gruppo. La conoscenza privata diventa conoscenza pubblica quando il senso comune dell’analista e dell’analizzando sono d’accordo sul fatto che le percezioni di entrambi indicano che una certa idea corrisponde ad un fatto esterno indipendente da entrambe gli osservatori. […] Quando lo psicoanalista dà una interpretazione, che è la pubblic-azione di una conoscenza privata, sta traducendo il pensiero in azione, la parola in fatto, quanto il fisico che conduce un esperimento di laboratorio”. (Bion, 1992, p. 197)

2. Il senso comune e l’esperienza clinica

In questo paragrafo passiamo ad esaminare l’importanza che Bion attribuiva al S.C. all’interno dell’esperienza clinica. In Cogitations - che in molte parti e per molti aspetti costituisce il diario clinico di Bion - ci sono numerosissime sequenze cliniche, e ripensamenti su di esse, centrate sull’utilizzazione di questo concetto. Si può in tal modo comprendere quanto Bion tenesse al monitoraggio del S.C. nel paziente, nell’analista e nella comunicazione tra loro. Questo tra l’altro costituisce un ottimo esempio di come la pratica clinica bioniana fosse pervasa da un senso di gruppalità che va ben oltre le teorizzazioni specificamente elaborate in Esperienze nei gruppi che - è bene non dimenticare - è stata la sua prima opera.

Nella citazione che ora riportiamo si può osservare con chiarezza la drammatica relazione che Bion vedeva instaurarsi in pazienti particolarmente gravi e violenti tra il S.C. del gruppo, della società, ed il S.C. interno del paziente.

“In altre parole non bisogna mai dimenticare che il paziente è pieno di sentimenti omicidi ed anche irresponsabile e che il ‘senso comune’, cioé il senso comune della società, impone una particolare diagnosi ed un particolare atteggiamento dei singoli membri della società nei confronti del paziente. Una resistenza nei confronti di questi dettami porta con sé le sanzioni che il gruppo minaccia sempre di applicare a coloro che oppongono resistenza ai suoi dettami. Il ‘senso comune’ del paziente, per quanto invisibile e difficile da individuare esso possa sembrare, gli dice proprio questo, perché il paziente è dotato di senso comune, anche se ne fa un uso assai poco comune.” (Bion, 1992, p. 103)

Da queste considerazioni di carattere complessivo Bion trae alcune preziose conseguenze per la gestione di una corretta posizione analitica.

“Anche se l’analista non deve mai cessare di essere un membro del prop*io gruppo […] non deve però permettere al ‘socialismo’ del suo orientamento di offuscare la realtà vivida ed immediata che egli ha di fronte nella stanza d’analisi. […] L’analista è quindi costretto a sperimentare la scissione che il paziente stesso patisce tra il proprio narcisismo ed il proprio socialismo.” (Bion, 1992, pp. 103-104)

Poco più avanti Bion chiarisce ulteriormente il rapporto clinico tra narcisismo e socialismo e S.C.

“[…] il paziente risente della consapevolezza presente nell’analista rispetto alle pressioni ed agli obblighi sociali, ma […] risente anche delle pressioni che hanno origine dalle pressanti richieste del suo narcisismo e […] lo fa sfruttando l’interesse che l’analista mostra per il suo benessere come un segno dell’incapacità da parte dell’analista di far mostra di quel senso comune che ci si aspetta che tutti, a parte l’analista posseggano”. (Bion, 1992, p.104)

Queste affermazioni ci danno l’occasione per una riflessione sulla clinica contemporanea dei pazienti gravi. In alcune patologie gravi - la patologia borderline ne costituisce un’ottima esemplificazione - si è giustamente giunti a considerare indispensabile un attteggiamento analitico di costante immersione empatica nell’esperienza soggettiva del paziente. Personalmente, proprio perché aderiamo con convinzione a questo atteggiamento, riteniamo opportuno segnalare quanto risulti utile prendere in considerazione la posizione clinica di Bion sul S.C. In altre parole una immersione empatica prolungata nella soggettività del paziente non dovrebbe però generare la sensazione nè nel paziente nè nell’analista che quest’ultimo stia perdendo il suo rapporto con a) il S.C. del paziente e soprattutto con le emozioni terrorizzanti o violente che esso induce; b) il S.C. dell’analista stesso e quindi, con c) il S.C. del gruppo. Sotto questo punto di vista sono da considerarsi empaticamente scorrette quelle posizioni analitiche che portano l’analista a dimenticarsi o, peggio ancora, a non voler considerare che il paziente “è dotato di senso comune anche se ne fa un uso assai poco comune”.

Sia detto per inciso, questo atteggiamento analitico per il quale la coppia analitica non dimentica mai i suoi rapporti profondi con il gruppo costituisce, a nostro modo di vedere, il nocciolo di una posizione teorico-clinica di Bion profondamente relazionale (Greenberg e Mitchell, 1983).

Proseguiamo ora con l’esaminare il valore clinico che Bion assegna al S.C. citando la sua posizione a proposito del rapporto tra S.C. ed interpretazione.

“[…] nessuna interpretazione [può] avere un qualche valore se, nel momento in cui viene data non comporta, in parte mediante l’elemento del contrasto che è inseparabile dalla giustapposizione, la messa in luce del disordine di elementi familiari sparsi e apparentemente privi di relazionalità e dell’ordine, della coesione e della relazionalità di questi stessi elementi. Questa interpretazione inoltre, non è efficace dal punto di vista psicoanalitico se, quando viene data, non è anche conforme al S.C.”. (Bion, 1992, pp. 170-171)

Non ci si deve meravigliare se una volta ancora, ed anche in una materia così “calda” come quella della tecnica dell’interpretazione Bion faccia un accostamento tra ordine e disordine (coesione e relazionalità di elementi “sparsi e apparentemente privi di relazionalità”) con il tema del S.C. Ci si ricordi delle due definizioni di S.C. che Bion è andato man mano elaborando nella sua opera. Il S.C. non è forse quel “senso” che istituisce una relazionalità, una coesione, tra le percezioni sensoriali potenzialmente “sparse” dell’individuo? Non è proprio grazie al S.C. che coordina la “visione” di un tavolo con il “tatto” di un tavolo che possiamo alla fine avere il “senso comune” che quel tavolo esiste proprio in quanto lo percepiamo in modi diversi? E d’altra parte le “soggettità” (Corrao, 1995) sparse di un gruppo non sono rese coese e relazionali da quel S.C. che ci permette sia nel mondo interno che nel mondo esterno di legarci indissolubilmente ad esse? In questa ottica apparirà con una chiarezza sempre più vivida la necessità da Bion sottolineata che l’atto interpretativo sia “conforme al senso comune”.

“Nessuna cura può essere permanente […] a meno che non si basi su quello che la ragione e insieme il senso comune dicono all’analista e all’analizzando essere la verità sulla personalità e sui meccanismi mentali dell’analizzando […]. La verità sulla personalità e sui meccanismi mentali dell’analizzando, per come l’analista riesce a dimostrarla all’analizzando porta ad una cura permanente, per come questa sarebbe intesa dall’analista e dall’analizzando da una prospettiva conforme al senso comune che consideri i risultati di questa dimostrazione”. (Bion, 1992, p. 117-118)

3. La controparte del senso comune nelle emozioni: comunicazione e correlazione

Torniamo ora alla citazione riportata prima in 1.2 (Bion, 1967, p.182) per riconsiderare la relazione fra S.C. ed emozioni. Premettiamo subito che un importante asse del pensiero bioniano (Symington, 1996, p.175) è quello che istituisce una incompatibilità tra la percezione dei sensi e la percezione della realtà psichica e quindi delle emozioni. Visto in questi termini il S.C. non troverebbe alcuno spazio nel discorso sul mondo emotivo. Ma non è così, per due ragioni.

La prima è costituita dal fatto che l’analista, una volta entrato in contatto con le emozioni del paziente, si troverà poi comunque nella condizione di dover tradurre ciò di cui ha fatto espeienza, in formulazioni dotate di senso comune. Basterà tenere a mente tutte le raccomandazioni di Bion ripsetto all’atto dell’interpretare e alla sua relazione con il S.C. per avere una piena coscienza di quale posto essenziale il S.C. occupi nella teoria bioniana rispetto alla comunicazione degli affetti.

Il tema della relazione tra comunicazione e S.C. (l’identità della radice linguistica di “comunicazione/comune” sottolinea la profondità dell’intuizione bioniana) sarà un leit motiv in tutti gli ultimi anni della vita di Bion. Sappiamo che egli, poco prima di morire, stava raccogliendo un’antologia di scritti poetici per psicoanalisti, e sappiamo soprattutto quanto questo tema sia centrale in tutti e tre i volumi di Memoria del futuro.

Intendiamo sottolineare quindi come, da questo punto di vista, la responsabilità dell’utlizzazione del S.C. sia per Bion un elemento qualificante della posizione dell’analista.

La seconda ragione è quella per cui Bion istituisce una analogia tra le correlazioni sensoriali del S.C. [common sense view] e le correlazioni affettive di un “senso” degli affetti che ha appunto la caratteristica di istituire la correlazione fra diverse emozioni [common emotional view]. Ciò che accomuna il common sense view, il punto di vista del S.C., alla common emotional view, il punto di vista delle emozioni, è la possibilità di fare correlazioni e la possibilità che queste correlazioni convergano nel definire un’esperienza. Per una corretta percezione ho bisogno che il tatto mi dica che sto toccando un tavolo mentre la vista mi dice che sto vedendo un tavolo, analogamente per una corretta “percezione” emotiva ho bisogno di poter correlare le mie emozioni verso uno stesso oggetto della mia esperienza: il mio amore per te, il mio odio per te, la mia invidia per te, la mia ammirazione per te, se sono correlate tutte nella mia relazione con te permettono, secondo Bion, una esperienza di verità. Più precisamente potremmo quindi sostenere che la possibilità di correlazione tra varie esperienze (siano esse percettive o emotive) è una delle caratteristiche del divenire in O. Riteniamo che questo sia il senso più profondo (sia che si tratti di percezioni che di rapporto con il gruppo che di emozioni) che Bion ha attribuito al termine “comune”.

4. Senso comune e “fatto selezionato”

Il tema della correlazione avvicina il concetto di S.C. a quello di “fatto selezionato”. E’ bene, tuttavia, mettere in evidenza una marcata differenza tra i due concetti.

Il “fatto selezionato” permette all’individuo di correlare e dar senso ad una serie di elementi fino ad allora apparentemente privi di alcuna relazione: viene selezionato un fatto in base al quale molti altri fatti assumeranno senso. In ultima analisi un elemento della realtà esterna suggerisce alla personalità una correlazione che a sua volta la personalità è disponibile ad intuire.

Il S.C. non ha invece bisogno di alcuna induzione esterna. E’ un “senso”, una dotazione innata (anche se, nei suoi contenuti, ampiamente influenzata dall’ambiente), che istituisce correlazioni fra le percezioni sensoriali e fra l’individuo ed il gruppo, senza che alcun fatto più o meno selezionato gli serva da attivazione. La differenza fra S.C. e fatto selezionato è fondamentalmente la differenza tra una funzione di correlazione innata e la capacità appresa - ad esempio abituandosi a tollerare la frustrazione e ad avere “capacità negativa” - di cogliere un elemento della realtà esterna che sia capace di ordinarne altri.

Il fatto selezionato inoltre non può che far parte della coscienza, anzi esso è legato al fenomeno della intuizione. Quando attraverso un fatto selezionato la personalità improvvisamente ordina una serie di eventi apparentemente privi di relazione tra loro, essa avverte la presenza di un nuovo significato e quindi di una nuova conoscenza.

Il S.C. invece è un senso che può essere conscio ma che il più delle volte è inconscio. Inoltre esso può appartenere sia all’inconscio dinamico (per esempio quando l’individuo sperimenta un conflitto inconscio con il gruppo e quindi attacca inconsciamente il proprio S.C.), che a quello procedurale. Ad esempio, quando il S.C. è applicato alla coordinazione delle percezioni sensoriali, questo fenomeno non entra a far parte della coscienza, ma non perché ci sia qualche motivo conflittuale che lo proibisce; esso può far parte di tutte quelle procedure - come andare in bicicletta, guidare un’auto, camminare - che rimangono al di fuori della coscienza in quanto ormai automatiche e che in psicologia vengono definite come appartenenti alla memoria procedurale. Vale la pena di segnalare qui che proprio questa collocazione in parte nell’inconscio procedurale ed in parte nell’inconscio dinamico può avvicinare il concetto di S.C. al concetto di Modello operativo interno elaborato dai teorici dell’attaccamento (Bowlby, Ainsworth, Main).

5. “Vox populi vox dei”: narcisismo/social-ismo e senso comune

Le teorizzazioni bioniane sulla pulsione si distaccano significativamente sia da quelle di Freud che da quelle della Klein - i suoi due unici veri referenti psicoanalitici - ed assumono oggi un ruolo di grande interesse rispetto a quello che sembra essere il dibattito epistemologico più importante nel pensiero psicoanalitico contemporaneo: optare per un paradigma pulsionale o per uno relazionale.

Teniamo qui a chiarire che i due paradigmi sono nati non in quanto il paradigma pulsionale non considerasse le relazioni (o di converso in quanto il paradigma relazionale non consideri elementi psichici di derivazione biologica e pulsionale), ma in quanto un paradigma vede come sovraordinate le pulsioni alle relazioni e l’altro vede le relazioni sovraordinate ai comportamenti pulsionali. Non si tratta cioè in nessuno dei due casi di minimizzare o cancellare certe fenomenologie o certi concetti, ma di spiegarli secondo coordinate teoriche differenti.

Il significato particolare occupato dalla teoria bioniana è quello di aver proposto (e per di più assai precocemente) una visione coordinata di pulsione e relazione. I concetti teorici con cui Bion ha trattato queste tematiche sono quelli del narcisismo, del social-ismo, e della loro relazione:

“Con questi due termini [narcisismo e social-ismo] intendo indicare i due poli di tutti gli istinti. Questa bipolarità degli istinti si riferisce al loro funzionamento come elementi nel compiersi della vita di ogni individuo in quanto individuo e come elementi nella sua vita in quanto animale sociale, o, come avrebbe detto Aristotele, come animale politico. Prendere in considerazione esclusivamente la sessualità ignora il fatto fondamentale che l’individuo si trova davanti ad un problema ancor più pericoloso da risolvere rispetto all’operare dei suoi impulsi aggressivi […]. Non c’è necessariamente conflitto ma l’esperienza dimostra che nei fatti c’è un conflitto di questo tipo, non tra la sessualità e gli istinti dell’Io ma piuttosto tra il narcisismo e il socialimo e che questo conflitto può manifestarsi indipendentemente da quali siano gli istinti dominanti in quel momento” (Bion, 1992, p. 117)

In un altro brano Bion dice che:

“Si potrebbero impiegare questi due termini per descrivere due tendenze, una ego-centrica e l’altra socio-centrica, che si vedono continuamente informare gruppi di spinte impulsive nella personalità. Queste tendenze sono di quantità uguale e di segno opposto. Quindi, se inun dato momento gli ipmulsi d’amore sono narcisisti, allora gli impulsi di odio sono social-isti, cioè diretti verso il gruppo e viceversa: se l’odio è diretto contro un individuo come parte di una tendenza narcisistica, allora il gruppo viene amato social-isticamente.” (Bion, 1992, p. 133)

Prendendo come esemplificazione la citazione bioniana riportata sopra in 1.3 (Bion, 1992, p.30) possiamo vedere come il S.C. occupi una posizione chiave nel modulare narcisismo e social-ismo, spinte verso l’individuo e spinte verso il gruppo; possiamo anche vedere come nel caso la conflittualità - cui Bion accenna nelle citazioni precedenti venga a manifestarsi in modo drammatico per la personalità ciò che viene attaccato è il legame tra narcisismo e social-ismo, vale a dire il S.C. E’ opportuno sottolineare con molta forza questa funzione di legame del S.C. perché dal punto di vista clinico gli attacchi del paziente al S.C. sortiscono un effetto che, considerato il modello bioniano è tanto singolare quanto drammatico. Proteggere disperatamente il proprio narcisismo, separarsi da un gruppo che si sente ostile attaccando il S.C., vale a dire le correlazioni con gli altri memebri del gruppo e con il gruppo nella sua interezza ha come esito quello di attaccare anche la propria capacità di correlazione fra le percezioni sensoriali.

Questo punto così originale - e a nostro avviso geniale - del pensiero bioniano, vale a dire quello che instaura per l’individuo una connessione diretta tra la relazione con il gruppo e la correlazione tra i propri sensi, non ha ricevuto sufficiente attenzione da parte degli studiosi bioniani. Ci proponiamo quindi di segnanalarlo con forza. Questa posizione di Bion lo avvicina in modo del tutto originale, e profondamente legato alla clinica, a quella parte della psicoanalisi contemporanea che fa riferimento a teorie dello sviluppo in cui gli schemi percettivo-affettivo-cognitivi evolvono direttamente all’interno della relazione con la madre e di coloro che si occupano del bambino (Stern, 1987, 1995; Lachmann e Beebe, ; Emde, ; Sander, ; Lichtenberg, 1983; Klein, ). Sembra oggi sempre più evidente la forte relazione che sembra essere parte del patrimonio genetico del piccolo essere umano tra la capacità di “leggere” le proprie percezioni e correlarle e la qualità della relazione con la madre e con i caretaker. Si sono giustamente notate in questo campo le fondamentali intuizioni di Winnicott ma ci sembra il caso di notare quelle, a nostro avviso ancor più preziose, di Bion.

Concludiamo questo paragrafo segnalando una volta ancora l’importanza che lo stesso Bion attribuiva al S.C. nella complessità dei suoi significati. In questo caso Bion mette in evidenza il valore ed il pericolo del S.C., la sua funzione di rivelazione e contemporaneamente la sua possibile funzione di inganno, cercando di portarci nel cuore di una dialettica fra S.C. come funzione positiva e S.C. come funzione coercitiva. Una dialettica il cui valore consiste non nell’opzione verso l’uno o l’altro dei due poli ma nella continua capacità di conoscere e riconoscere la funzione che ambedue esercitano. In una cogitation che Bion stesso chiama Il senso comune e la polarità gruppale degli istinti egli dice:

“Berkeley dice che lo stimolo potrebbe essere Dio; e lo dice anche Cartesio. Terrò fermo che ci sia del vero in questo e che tra tutti gli oggetti che una data ipotesi espressa in un dato momento asserisce come costantemente congiunti c’è sempre l’elemento che è quell’aspetto che ‘Dio presenta’. Perciò se dico che vedo un tavolo sto affermando che questa è un’esperienza empirica nella quale la mia ipotesi che certi elementi siano costantemente congiunti - quegli elementi, nella fattispecie, la cui congiunzione costante ho deciso di chiamare ‘tavolo’ sono di nuovo congiunte; e inoltre che tra questi elementi (durezza, forma, etc.) c’è un elemento che è il contributo di ‘Dio’, il prodursi in me della consapevolezza di certe sensazioni […]. Che cosa è questo Dio o Diavoletto? Secondo me non è nient’altro che la componente sociale, ‘vox populi, vox dei’, dell’equipaggiamento istintuale. […] L’evidenza di questi fatti […] non è incompatibile con il punto di vista che sto proponendo: che, cioè, certe percezioni dell’individuo non siano tanto qualità in corso di studio, ma piuttosto imposizioni sul modo di vedere le cose dell’individuo da parte del senso comune (secondo la mia terminologia) o dell’idea di Dio (secondo l’espressione di Berkeley) o degli inganni di Dio e del Diavoletto (in quella di Cartesio)” (Bion, 1992, p. 195)

Conclusioni: i miti come non-senso comune

Per concludere questo nostro lavoro mettiamo in evidenza come Bion abbia avuto la capacità di tenere presente l’elemento legato alla correlazione delle percezioni ed alla dimensione gruppale dell’individuo anche là dove l’individuo sembra più “libero” di esprimere la sua creatività profonda: nella funzione a e nella mitopoiesi. L’idea che perfino il sogno e il mito debbano fare i conti con il S.C. rende squisitamente psicoanalitica la visione di Bion della realtà umana. Una visione cioè che cerca di individuare le più intime capacità creative dell’essere umano non nella sua capacità di prescindere dal vincolo (percettivo o gruppale che esso sia) ma di saperlo usare in modo creativo:

“Fino a che punto la mitopoiesi è una funzione essenziale di a? Può darsi che l’impressione sensoriale debba essere trasformata per renderla materiale idoneo al pensiero-del-sogno, ma che la funzione del pensiero-del-sogno sia quella di usare il materiale che a mette a sua disposizione, le unità di pensiero-del-sogno, per così dire, allo scopo di produrre miti. I miti devono venir definiti; devono essere comunicabili ed avere alcune delle qualità del senso comune: li si potrebbe chiamare ‘non-senso comune’.” (Bion, 1992, p. 192)

 

Note

 

1 - Il testo inglese dice “The failure to bring about this conjunction of sense-data, and therefore of a commonsense view induces a mental state of debility in the patient as if starvation of truth was somehow analogous to alimentary starvation.”

Purtroppo il traduttore dell’edizione italiana rendendo “and therefore a commonsense view” con “cioé una sensazione di coerenza fra i sensi”, pur traducendo il significato correttamente ha - come in altre occasioni - eliminato il termine “senso comune” producendo, involontariamente, un serio danno alla comprensione di questa parte del pensiero bioniano.

2 - Ci siamo trovati nell’imbarazzante condizione di dovere ritradurre il testo inglese perché la traduzione italiana di questo passo è così piena di rifacimenti ed aggiunte da alterare sostanzialmente il significato del testo bioniano. Il testo inglese dice “The emotions fulfil a similar function for the psyche to that of the senses in relation to objects in space and time. That is to say the counterpart of the commonsense view in private knowledge is the common emotional view; a sense of truth is experienced if the view of an object which is hated can be conjoined to a view of the same object when it is loved and the conjunction confirms that the object experienced by different emotions is the same object. A correlation is established”.

Bibliografia

 

 

Bion W.R. (1962) Apprendere dall’esperienza, Armando Armando, Roma, 1972

Bion W.R. (1963) Gli elementi della psicoanalisi, Armando Armando, Roma 1973

Bion W.R. (1965) Trasformazioni: il pasaggio dall’apprendimento alla cre-scita, Armando Armando, Roma, 1973

Bion W.R (1967) Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando Armando, Roma 1970

Bion W.R (1992) Cogitations, Karnac Books, London*

Greenberg J. Mitchell S. (1983) Le relazioni oggettuali nella teoria psicoana-litica, Il mulino, Bologna 1986

Stern D. (1985) Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987

Stern D. (1995) La costellazione materna, Bollati Boringhieri, Torino 1995

Symington J. & N. (1996) The Clinical Thinking of Wilfred Bion, Routledge, London

* La numerazione delle pagine fa - per ora - riferimento al testo inglese e sarà cambiata non appena uscirà la traduzione italiana delle edizioni Armando (che è attesa tra pochi giorni). La traduzione è già quella di Parthenope Bion Talamo e Silvio Merciai.


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