Agostino Racalbuto

 

PENSARE. L'ORIGINARIO DELLA SENSORIALITA' E DELL'AFFETTO NELLA COSTRUZIONE DEL PENSIERO

"L'Io è anzitutto un'entità corporea"

(S. Freud, 1923)

"Se, dunque, si consideri l'accumulo dell'esperienza e poi l'uso che viene fatto di questi "possessi", si usa il vocabolario che è stato forgiato per (e a partire da) il mondo dell'esperienza sensoriale"

(W. R. Bion, 1975)

 

 

Se si accetta l'affermazione di Freud (1915), secondo cui "l'oggetto interno è meno inconoscibile del mondo esterno" non può non aprirsi un grosso dibattito scientifico sulla conoscenza, e - indirettamente - sull'inconoscibile. Dopo Freud, nell'ambito psicoanalitico, Bion ha certamente focalizzato - forse più di altri - il problema del limite della conoscenza, quella legata alla percezione, e rimandato al problema dei limiti (della conoscenza e degli strumenti analitici atti ad approfondirla). Per accedere - per quel poco che si possa - all'inconoscibile, per andare al di qua o al di là della sensorialità, pur passandovi attraverso, del rappresentabile, per ritrovare ciò che Bion chiama il "punto O", è necessario che lo psichismo operi per una via non sensoriale, che non si basi sul dato percettivo, ma che non faccia ricorso nemmeno a un pensiero fatto di astrazioni. Viene ricondotta così la conoscenza della realtà allo studio delle funzioni e delle modalità del pensiero: Bion sembra ricordare, come a mio avviso adombra il primo Freud, che è necessario non circoscrivere la questione del pensiero alla dinamica delle rappresentazioni. Pertanto ritengo che il suggerimento di Bion non debba necessariamente mettere in discussione il modello rappresentazionale, quanto fungere da stimolo che integri la riflessione sul "pensare", all'interno di un'ottica psicoanalitica freudiana che tenga conto dell'apporto bioniano. E' per questo che cercherò di usare - in un tentativo di integrazione - terminologia e concetti appartenenti ai due differenti modelli psicoanalitici.

I pensieri preesistono al pensare. Pensare viene dopo: pensare significa differire le risposte che i pensieri pongono quali domande alla psiche. Domande che provengono dai pensieri, così come dai proto-pensieri (Bion, 1967), elementi psichici esperiti come "affetti-sensazioni" (Racalbuto, 1994). Proto-pensieri che Anzieu (1994) definisce "mobili, interni/esterni alla mente", corrispondenti a "uno stato originario, tra confusione e differenziazione", "misti a impressioni sensoriali, posturali, cenestesici, chinestesici, di collage-montaggio di pezzi grezzi, di affetti e di fantasmi" (p. 17). Se i processi secondari di pensiero, con le parole e le rappresentazioni verbali che lo caratterizzano, non riprendono questo "stato originario", non ci può essere un pensare che risponda a questo tipo di esperienza. Il pensare infatti risponde - inizialmente per il tramite dei processi primari di pensiero e le "rappresentazioni di cosa" - alle "confusioni" originali, come graduale passaggio dallo psichismo originario (il pensiero in sé) ai processi psichici propriamente detti, i primari, prima, e i secondari, dopo. I pensieri necessitano quindi di un "apparato" per essere pensati, così come le "memorie somatiche" depositate nella psiche finiscono con l'assumere il significato di dati psicologici solo "nello stadio operativo dell'apparato psichico" (Heimann, 1958). I pensieri, come dato concreto privo di forma e di significato, necessitano di un "contenitore", di un "apparato", che permetta loro di assumere - e allo stesso tempo contribuisca a determinare - forma e significato; "se mi è permesso vorrei usare" - dice la Heimann, 1958) - "(...) un'analogia: talvolta compriamo minuscoli pezzetti di carta apparentemente privi di colore e di forma. Messi in acqua, essi si aprono assumendo forme definite, affascinanti e vivacemente colorate: si chiamano Fiori Cinesi" (p. 183).

Penso perciò che se in analisi non ci fosse una parola in grado di risvegliare processi primari nessun percorso analitico potrebbe dischiudersi. In analisi non si tratta infatti di sostituire semplicemente - usando il linguaggio freudiano - "rappresentazioni di parola" a "rappresentazioni di cosa". E' fondamentale spesso rendere possibile piuttosto l'esperienza di affetti, capaci non solo di rintracciare parole per illustrare un processo primario - magari descrivendolo secondo i tipi del processo secondario - ma soprattutto in grado di riprenderlo nel suo "respiro" preconscio, di farlo "rivivere" e di cominciare da lì a dare un "senso" alla relazione. Una relazione che prende forma - con il senso implicito - nella misura in cui è possibile reperire un apparato che dia forma e intellegibilità affettiva ai pensieri. Non è (ancora) il senso dei perché, dei come e dei quando, non è il senso delle connessioni fra causa ed effetto; è il senso "originario" però dell'esperienza, non sempre connessa perciò alla parola, ma ad altre categorie di vissuti, come quelle legate ai toni, ai ritmi, alle cadenze sensoriali, alle caratteristiche emotive.

Siamo nel "luogo" psichico dell'Io corporeo (Freud, 1923), che si può equiparare all'"apparato protomentale" di Bion (1962); luogo che non è riservato alla creazione di rappresentazioni mentali dell'esperienza, ma solo alla percezione (e alla "presentazione") di esperienze connotabili come stati corporei grezzi, affettivi-sensoriali. Possiamo omologare questi stati alle eccitazioni somato-sensuali, che sono fisiche nella loro origine e che non vengono trasformate nella sfera mentale (Freud, 1893-95); ci troviamo di fronte alle impressioni dei sensi, connesse a esperienze emotive, che Bion (1962) ha chiamato elementi beta. Sono impressioni che, se non trasformate da una funzione alfa, da una reverie materna, da una attività psichica di risposta all'enigmaticità del dato sensoriale, possono reiterarsi sotto la forma di "presentazioni" - e non di "rappresentazioni" - per il tramite delle tracce mnestiche non elaborate. E' la barriera di contatto, come aggregazione mobile e fluttuante di elementi alfa, che permette la differenziazione fra conscio e inconscio e quindi fra senso dell'esperienza e esperienza in sé; è questa differenziazione che permette allora l'acquisizione della consapevolezza di ciò che si vive e, nel campo clinico, la condizione psichica per ogni insight. Freud (1911) aveva segnalato qualcosa del genere ne I due principi dell'accadere psichico. Se prevale invece lo schermo degli elementi beta non è possibile la differenziazione fra conscio e inconscio, né alcuna altra differenziazione: fra dentro e fuori, fra passato e futuro, fra me e non-me e così via. In questo caso le impressioni somato-sensuali prevalgono, presentandosi ripetutamente nell'esperienza, senza alcuna possibilità di collegamento con rappresentazioni, espressioni mentali, tantomeno verbali.

Nelle aree psichiche caratterizzate da tali impressioni non c'é dunque la parola. Allorché questa è reperibile appare veicolata dal preconscio, ma è nata dall'inconscio; in tale caso non solo dall'inconscio oggetto di rimozione, ma anche da quello residuato dalle impressioni dei sensi, dalle eccitazioni somato-sensuali o dagli elementi beta. Per questo la parola equivale allora al gesto e recupera una indispensabile impronta affettiva, senza la quale è impossibile muovere i primi passi dell'evoluzione (soggettiva e relazionale) concernente l'area psichica implicata nell'esperienza. Viene reperito così un senso originario di tale esperienza. Quando parlo di "senso originario dell'esperienza" non intendo riferirmi solo alle fasi arcaiche della vita, ma a tutte quelle esperienze, quei vissuti, anche più tardivi, che in un certo qual modo sono contrassegnati dalla caratteristica di essere esperiti - in senso funzionale - come iniziale elaborazione delle impressioni dei sensi. Esperienze vissute spesso in una condizione di impreparazione per la psiche (vedi l'Hilflosigkeit di Freud), e che non hanno originariamente a loro disposizione un pensiero organizzato in strutture logiche e verbali.

In riferimento alla relazione analista - paziente, in questi casi l'originario è nel corpo del paziente, o meglio nei suoi "stati corporei", che si caratterizzano come primo oggetto per la psiche; così come, nel controtransfert, sono le condizioni del corpo e la tensione psichica che l'analista avverte, cioè il suo riscontro affettivo-sensoriale, a potere spesso instradare verso una adeguata impostazione della relazione analitica e a suggerire una opportuna risposta alla richieste del paziente. E' il corpo infatti ad essere affetto, segnalando e rinviando la sua sofferenza alla psiche: nella sua ambiguità di essere affetto da (nel senso di malato, dolente, segnato, carico di, ecc.), e di essere l'affetto (cioè di incarnare l'affetto nell'unico modo con cui esso in taluni casi può essere avvertito). Non sto dicendo naturalmente che l'affetto è un fatto puramente somatico perché, d'accordo con la McDougall (1989), "l'affetto non può essere concepito come evento puramente mentale o puramente fisico" (p. 102). Ritengo che, sulla base di un oggetto adeguato non reperito o di un principio di piacere troppo disatteso, o - al contrario - troppo imperante per prevedere la tolleranza alle frustrazioni, la difesa contro il dolore psichico obbliga a eliminare, o a non attivare, la rappresentazione o la rappresentabilità dell'evento esperito. Penso anche, come eventualità complementare, a una sorta di vissuto traumatico: una relativa immaturità delle funzioni dell'Io dell'individuo e/o una mancanza di significazione ambientale (carenza di funzione alfa materna) rendono "non comprensibili" alcuni eventi psichici, tenendoli così al di fuori dell'area della rappresentabilità e della significabilità affettiva personale. In questo caso - oltre all'inconscio conseguente alla rimozione - mi pare più adeguato fare riferimento ad un inconscio originario rimasto troppo enigmatico, cioè a una spinta pulsionale e a un suo oggetto non significati, per deficit psichico e mancanza di difese adeguate. Ovviamente, va differenziato dall'inconscio appena descritto quella quota di inconscio originario - sano - non conseguenziale alla rimozione e che costituisce il nucleo originario narcisistico, legato alla spinta pulsionale, dinamicamente attivo per lo sviluppo della psiche: "l'impensabile che fa il pensato" (Pontalis, 1977).

Ciò che resta fuori dall'area della rappresentabilità e che non fa parte dell'inconscio per sua natura, cioè fisiologicamente, impensabile, va a costituire una mancanza di contenuto, una mancanza di senso all'interno dell'esperienza psichica: l'esperienza clinica delle aree psichiche narcisistiche molto disturbate ce lo insegna. In questo senso l'irrappresentabile è una non-rappresentazione, cioè quell'esperienza che si contraddistingue per la sua negatività, per essere un non-essere, un "buco nero" dello psichismo. Si può dire che la perdita oggettuale originaria - in quanto elemento originario di un legame che assicura la vita psichica - non riguardi, in relazione alla negatività, la perdita della percezione dell'oggetto, ma la perdita (o non acquisizione) della sua rappresentabilità. La non-rappresentazione non si origina né dalla rimozione né dal diniego, non è connessa all'angoscia di castrazione e non è prodotta da un meccanismo dell'Io. La sua esistenza può essere captata, colta preconsciamente, al di fuori di ogni contenuto, a livello del processo psichico stesso: tramite la presa in considerazione di un "buco" nella psiche, di una negatività che si manifesta nella dinamica psichica sotto forma di un'alterazione del processo, più spesso provata - e comunicata - come vera e propria "defaillance" del pensiero.

A questo punto si pone una questione: quando si fa esperienza, all'interno della situazione analitica, dei nuclei inconsci su descritti - muti o opachi affettivamente, nuclei di non-rappresentazione - si tratta di recuperare sempre nel paziente affetti e rappresentazioni rimossi o di costruire, nel senso di vera e propria edificazione in analisi, magari su tracce estremamente labili, veri e propri nuovi affetti e nuove modalità rappresentative?

Qui voglio ribadire che probabilmente una originaria modalità, forse l'unica, di registrare-vivere un evento psichico con le sue implicazioni sensoriali consiste inizialmente in un dato psico-somatico, recuperabile attraverso le tracce mnestiche senza che questo evento sia necessariamente "pensato" (vedi il "conosciuto non pensato" di Bollas, 1987); senza che i proto-pensieri e i pensieri siano pensabili, siano cioè metabolizzati in forme rappresentative-affettive - tanto meno verbali - come riconoscimento appropriato delle caratteristiche e delle qualità degli oggetti e dei sentimenti che questi oggetti ispirano o nutrono. Perché questo accada occorre che la relazione oggettuale e le modalità di comunicazione che la contraddistingue abbiano attinto, ove più ove meno, al linguaggio simbolico e ai parametri che lo caratterizzano (possibilità di "usufruire" mentalmente dell'assenza dell'oggetto, riconoscimento dell'oggetto totale, elaborazione del lutto, o se più si preferisce, superamento della posizione depressiva con l'innesco delle funzioni riparative e creative, accesso alla metafora, abbandono della identificazione proiettiva come modalità dominante di comunicazione).

I pazienti che invece, per esempio, contano troppo sulla identificazione proiettiva - e che non possono fare altrimenti - come modalità di comunicazione, di difesa o di relazione oggettuale tradiscono la loro inabilità a usare il più delle volte un linguaggio simbolico sia nel rapporto con altre persone che intrapsichicamente (come parte di un loro dialogo interno e come spia del loro rapporto con i propri "oggetti interni"). Il risultato di tale funzionamento psichico è che molto spesso questi pazienti non possono comprendere né utilizzare interpretazioni offerte secondo una forma simbolica verbale, raccogliendo piuttosto tali interventi dell'analista come elemento intrusivo, come un "non sense" persecutorio che se intenzione c'era di buttare fuori, ritorna altrettanto persecutoriamente dentro. Preciso che qui adopero il termine "identificazione proiettiva" per indicare quel fenomeno in base al quale emozioni, stati d'animo, stati corporei dell'uno provocano nell'altro "congruenti" (Ogden, 1982) sensazioni fisiche ed emotive; personalmente, non vedrei sempre in tale meccanismo un "mettere dentro" aspetti di sé nell'altro, quanto anche un evocare, promuovere, suscitare per risonanza nell'analista aree o nuclei propri di quest'ultimo, presenti allo stesso tempo in forma analoga nel paziente. In questi casi non basta "restituire", che si rifletterebbe alla lettera il paziente; occorre piuttosto elaborare, trasformare beta in alfa, direbbe Bion. Si tratta di far vivere l'esperienza di contenimento come un'autentica testimonianza di segnale d'identità e di funzionamento relazionale che attivi il passaggio dai pensieri al pensare; d'accordo con la McDougall (1976), allorché sostiene che Narciso rispecchiandosi in una fonte non ricerca se stesso, ma se stesso arricchito dallo sguardo della madre.

 

La clinica, vissuta e pensata

Passare dai proto-pensieri e dai pensieri al pensare, in clinica, nelle sedute analitiche, implica per l'analista la fiducia che l'inconscio sia comprensibile. Comprensibile non nell'accezione intellettuale, quanto relazionale, secondo modalità e forme di "intesa" - in una processualità fra "persone" - che spesso rispondono ai processi primari di pensiero da una parte e tollerano gli aspetti della non-rappresentazione dall'altro.

Riporto di seguito un caso clinico che mi pare esemplificativo di tale processo.

(omissis)

 

Commenti: pensare i pensieri

Mi è parso di rintracciare nel caso di Petra il fallimento dell'attività del pensare, la carente costituzione di un apparato per pensare i pensieri: di un apparato per organizzare in rappresentazioni i dati dell'esperienza psichica. Per questo credo che le non-rappresentazioni, pur essendo sorte da avvenimenti "reali", non hanno potuto essere percepite, rappresentate o ancora rimosse, non sono forse passate neanche attraverso gli organi di senso. L'eccesso della sensorialità si configurerebbe allora, nella mia ipotesi, come attività psichica compensatoria e sostitutiva allo stesso tempo della mancanza originaria di una funzione alfa, quindi come una perdita oggettuale originaria che impedisce l'elaborazione rappresentativa dell'esperienza. Questo eccesso lo immagino come una proliferazione sensoriale attorno ad un'area psichica atrofizzata, dove percezione e rappresentazione non hanno instaurato la processualità del pensare. L'atrofia, in altre parole, sarebbe l'esito di un trauma infantile che ha condotto a una "defaillance" del pensiero.

Questa concezione del trauma infantile sotto l'aspetto della non-rappresentazione comporta una conseguenza tecnica. Per l'analista in questi casi è più importante seguire i contenuti e i meccanismi psichici in gioco o la via della disorganizzazione del pensiero che attanaglia il paziente? E' più sostanziale mantenere la coerenza dei propri processi secondari di pensiero o perdersi - alla ricerca di una possibile reverie - lungo la via dei dubbi, dell'assenza di un apparato che consenta di pensare (i pensieri)?

Riprendendo il filo delle argomentazioni esposte in apertura - prima della presentazione del caso clinico - ricordo che è mia opinione considerare in questi casi l'alterazione del funzionamento psichico non conseguenza di una difesa, ma testimonianza di un difetto originario: non inconscio frutto di rimozione o di diniego, ma inconscio da mancanza di elaborazione dell'esperienza connessa al rapporto percezione-coscienza. Per questo io credo, in relazione agli ultimi interrogativi che ho proposto, che sia capitale per l'analista seguire il movimento psichico del paziente, accettando - per esempio - una "defaillance" del proprio abituale pensiero allo scopo di rintracciare nel paziente, per analogia di funzionamento psichico, delle "inscrizioni mestiche" particolari in quanto tracce mnestiche non rappresentabili: non-rappresentazioni.

Faccio riferimento a quel piano dove la possibilità che il paziente esca dalle sue modalità di investimento di un oggetto alla fine dei conti inanimato (ecco un aspetto implicito nell'uso massiccio dell'identificazione proiettiva) risiede nello starci a realizzare una sorta di ritmo condiviso, una specie di accordo consonante dettato dall'unico "linguaggio" che il paziente è in grado di intendere: vedi il concetto di "unisono" (at-one-ment) in Bion. Tale accordo, secondo me, è l'unico possibile après-coup trasformativo di una esperienza, probabilmente fallimentare, dove ciò che è mancato è proprio l'armonia, l'unisono da una parte, ma anche la complementarità di note "differenti" dall'altra, l'intesa insomma con il proprio oggetto primario; come prova assolutamente reale e attendibile di un rapporto soddisfacente con l'oggetto che non sia pura soavità, ma che riprenda anche la violenza insita nella vita (se si vuole Eros e Thanatos) e che significhi sia l'investimento libidico che quello aggressivo. Si tratta di un atteggiamento che comprende e trascende il soggetto e l'oggetto, l'unione e la separazione, costituendo una componente importante nell'ascolto del paziente e nell'offerta di una nostra parola o di un nostro "essere" nell'unico modo - originario - con cui il paziente forse è capace di vederci: come sosia. Ma ritengo, al contempo, che una quota di diversificazione debba essere pur presente nella comunicazione dell'analista per segnare-segnalare al paziente - a livello preconscio - una funzione terapeutica separata e gradualmente interiorizzabile. Io credo di aver funzionato riproponendo dal di fuori l'essenza di Petra per farle accettare l'unica alterità in quel momento accessibile a lei, quella del "d'accordo"; piuttosto tentando preconsciamente di modificare la comunicazione della paziente tramite i miei sensi in linguaggio, certo "riflettendo" ciò che la paziente era con me (presa dal senso di disperazione e di morte, pietrificata), e in questo senso parzialmente analogo. Allo stesso tempo però introducevo, emotivamente "genitore", perché la paziente se ne potesse eventualmente servire, una mia funzione dell'Io: tale funzione era interprete certo del bisogno (originario) che mi sintonizzassi sulla sua "lunghezza d'onda" per essere messo nelle condizioni di interagire efficacemente con lei, recuperando l'area delle non-rappresentazioni, ma anche della necessità che io risultassi un oggetto sopravvissuto alle sue spinte egemoniche e sopraffattive, deneganti la mia autonomia e la mia separatezza, proprio ciò in base al quale avevamo costituito un contratto di lavoro. Questa funzione dell'Io, non so come altrimenti chiamarla, credo mi derivasse da una trasformazione dei miei sensi e dell'affetto ad essi connesso in pensieri (trasformazione da originario in secondario), ma anche dalla mia tolleranza ad abbandonare l'area delle rappresentazioni, per recuperare la negatività, la "capacità negativa" di cui parla Bion (1970). Per passare a pensieri riflessi tramite i sensi (il mio sentirmi "mineralizzato", il mio stato "vertiginoso", la mia "nausea"), ma anche per recuperare pensieri differenziati che offrivano, attraverso la mia vitalità separata, un'immagine di me sopravvissuta al progetto comunitario distruttivo indifferenziante. Si tratta, credo, di creare una tensione dialettica generativa tra l'informe e il formato, tra il primitivo e il maturo, fra il misterioso (o l'estraneo) e il familiare, fra il somatico e lo psichico, fra l'unione e la separazione, anche fra il maschile e il femminile. Di tale tensione ho avuto l'impressione di dover essere io a recare testimonianza per primo alla paziente, impegnato com'ero fra il va (proprio nel senso dello sparire) e vieni (nel senso di una intuizione) del mio poter pensare alla relazione e al senso che in essa andava configurandosi. Mi sembrava di dover segnalare alla paziente una funzione contenitiva della mia continua oscillazione fra la percezione di emozioni così corporee da essere anche abbastanza a lungo non utilizzabili controtrasferalmente e il tentativo di recuperare una funzione analitica che favorisse meccanismi identificatori, integrazione e insight.

Ho avuto la netta impressione - tramite i miei stessi rimandi corporei - che Petra, in quell'area psichica implicata, fosse preda di una mortifera eccitazione somato-sensuale che precludeva alla vita e alla possibilità di pensare. Questo "stato somatico" sorgeva, a mio avviso, da una zona psichica in cui una prematura incombente consapevolezza della separatezza corporea dall'oggetto delle cure minaccia la vita psichica. Questa consapevolezza è tossica per il funzionamento psichico e ne blocca il procedimento; deve perciò essere deflessa dal circuito del pensare, il che inibisce, per quella parte che riguarda quell'esperienza, la formazione (o quanto meno l'uso) di un appropriato "apparato per pensare i pensieri".

Nel tracciare le origini della "parte psicotica della personalità" Bion (1957, 1967) rimanda all'esperienza che il neonato fa delle "mancanze" materne. In particolare, sottolinea l'inabilità della madre nell'assicurare un valido "contenitore" per le angosce impensabili, di distruzione psichica, che il neonato può provare. Il modello che Bion propone considera fondamentali per la costituzione di un adeguato "contenitore", e quindi di un oggetto "contenuto": a) la capacità della madre di ricevere l'angoscia del bambino, e con quest'angoscia - tramite identificazione proiettiva - "parti" non volute di sè, dei sensi, e anche dell'"apparato mentale", che sono avvertiti come una minaccia per l'esistenza del bambino; b) l'abilità materna a trasformare i dati sensoriali grezzi ("elementi beta"), attraverso la sua "funzione alfa", nella "sostanza" di cui sono fatti i sogni, i pensieri, i ricordi; c) la competenza materna nel restituirli, con una modalità non impositiva, al bambino sufficientemente disintossicati perchè il sistema psichico infantile - relativamente immaturo - sia in grado di tollerarli. Possiamo, per analogia, considerare l'adeguato "contenitore" un "apparato per pensare i pensieri" funzionante; e gli oggetti "contenuti" i pensieri, o meglio gli elementi di cui sono fatti i pensieri.

Tenendo presente questa "defaillance" dell'originaria relazione madre-bambino, ritorniamo a Petra, il cui caso riecheggia una simile evenienza. Nel trattamento emerse un nucleo estremamente importante della personalità della paziente. Spesso dovevo fare i conti con silenzi pesanti come macigni, alternati a momenti in cui mi rovesciava apertamente addosso tutta la sua angoscia; dal silenzio rabbioso o terrorizzante, più sporadico dopo ripetute esperienze di contenimento fatte nel corso della terapia, ai momenti in cui tesa e irrigidita sul lettino mi ripeteva infinite volte: "non riesco a pensare". Anche quando emetteva suoni tipo sospiri o lamenti che mi entravano lugubri dentro, intuivo che non riusciva a "pensare", che per lei questo era equiparabile a un incommensurabile vuoto interno da cui si sentiva risucchiata e dentro cui aveva paura di sparire. Imparai presto che dovevo parlare quando i suoi silenzi erano per lei morte assoluta, perché il suono di una voce umana (non necessariamente per lei la mia voce, ma semplicemente una voce, la rimetteva in vita); scoprii che i suoi "non riesco a pensare" dovevano essere intesi come "pensa tu per me", che non potevo permettermi di raccogliere i suoi sospiri senza reagire con qualche parola, cioè che un suo lamento non doveva cadere nel vuoto. Mi sono convinto che se mi era possibile veramente tollerare dentro di me, nel controtransfert, la tensione angosciosa della paziente, senza sentirmi morire, mi risultava più plausibile rispondere a questi suoi profondi stati di malessere riproponendoglieli come una sua qualità dell'essere viva, e, gradualmente, del potere avere oggetti vivi che riuscissero a pensarla pur in quelle condizioni. Sono abbastanza sicuro che ciò che mi ha indotto a questo comportamento è stato prima una registrazione subliminare sensoriale del mio corpo (l'originario che piombava nella relazione analitica), una sorta di all'erta corporeo e poi sempre un pensare, un pensare non speculativo, appena possibile, a come mi sentivo (la mia elaborazione personale della quota rielaborativa del "fantasma" connesso all'originario, che conserverà comunque la sua componente di irrappresentabilità). Credo che questo atteggiamento corrisponda, usando ancora solo per analogia il modello madre-bambino, alla reverie di cui parla Bion, dove la modalità del pensare prende spunto dagli "elementi grezzi" sensoriali. Si può allora affermare che Petra dipendeva dall'analista per utilizzare la sua potenziale capacità di pensare, così come il "bambino" - dice Bion (1963) "dipende dalla madre per mettere in atto la funzione alfa", e così come lo sviluppo di un "apparato per pensare" dipende dal "successo delle introiezioni del seno buono che è originariamente responsabile della performance della funzione alfa" (p. 32). Per esempio per parecchie sedute, la paziente non ha mai aperto bocca se non per sospirare, emettere qualche suono o lamento, per schiarirsi la gola e, raramente, lamentarsi di essere "senza pensieri" o piena di "malesseri in tutto il corpo": in quelle situazioni io mi sono sentito vivo "fisicamente", ho sentito il battito del mio cuore, le mie inspirazioni e le mie espirazioni, contrarre e decontrarre i miei muscoli e i miei visceri, poi ho anche pensato che volevo così percepirmi vivo di fronte a qualcosa che sentivo evidentemente come morte; in seguito mi si è fatta strada un'immagine ideativo-affettiva di me come regolatore originario di un ritmo per la paziente, ritrovando quel "battito ritmico" riferito nel breve resoconto clinico come il crogiuolo di un "ritmo vitale" che prendendo spunto dal soma e dai "pensieri" somatici si orientasse verso il pensare, alternando parole a silenzi. Mi pareva di funzionare, col senno di poi, facilitando un'interscambio identificatorio (proiettivo e introiettivo), un po' per significare le sue opzioni fusionali, un po' per consentirle una sortita verso un'esperienza primaria individuativa-separativa, un po' affiancandola per sostenerla nella sua "agonia", un po' lasciandola, favorendo così un "isolamento non disturbato", un suo potere "stare da sola, in compagnia". Mi convinsi, e glielo dissi, collegandolo al transfert, che aveva imparato fin dall'origine a stare da sola fra un padre tenero si, ma poco conosciuto e "perdente", e una madre drasticamente assente, per lei fredda quale fonte di affetti e di calore. Aveva imparato a non aspettarsi più niente di fatto, coltivava una speranza effimera, quella che la aveva portato da me, ma dentro preferiva restare sola. Lavorando sul suo senso di soffocamento, sul suo sentirsi lentamente "spegnere" o "consumare", pian piano venne facendosi strada nella mia mente che il non accoglimento, il non ascolto poteva essere il nucleo fondamentale di quella relazione originaria che, nella coazione a ripetere, la paziente aveva attivato anche con me. Immaginai una madre depressa e iperansiosa, menomata nella sua capacità di reverie; pertanto una madre non in grado di ricevere le comunicazioni della sua bambina, una madre internalizzata come un oggetto ostruente, che è indisponibile o incapace di contenere. Ritenni che, al posto dell'identificazione proiettiva di natura comunicativa e dell'assimilazione sana che ne consegue, si fosse instaurata una sorta di incorporazione, dove l'oggetto incorporato non è integrato con rappresentazioni dentro la personalità; non è cioè assimilato rappresentativamente, residua come non-rappresentazione. Come un corpo estraneo o un "fatto indigesto" (Bion, 1962) tale oggetto è avvertito somaticamente o proiettato nella realtà esterna.

Le dissi allora, con vari interventi, e in maniera il più chiara e sintetica possibile, che forse un suo problema era quello di non credere alla possibilità di scambiarci qualcosa emotivamente e di non poterla fare vivere dentro di noi; cioè che per lei mettersi in relazione, fin dalla nascita forse, non era un'esperienza vitale. Mi rispose una volta che aveva trovato la forza per comunicarmi davvero un suo stato: "Infatti! Lei può vivere per conto suo, io no!". Il senso di gelo che mi pervase mi indirizzò verso l'immagine di una sua componente che separata sarebbe morta, così come l'oggetto perduto prematuramente resta incorporato alla stregua di un corpo estraneo "morto". La concretezza del suo disagio sensoriale, da me percepito nel controtransfert, era il modo di sentirsi viva, la compensazione corporea di un'assenza della capacità di pensare, una difesa contro l'indifferenziazione, l'indifferenza e la morte assoluta. Capii che lei poteva esistere solo "unita", catturando al suo interno un oggetto sensoriale, perchè "sola" si perdeva. Doveva allora confiscarmi e distruggere ogni autonomia e ogni prerogativa quale persona da lei distinta e separata, perchè questo era funzionale alla sua sopravvivenza.

Il duplice aspetto dell'oggetto (foriero di benessere/malessere) passava attraverso la possibilità di realizzare una specie di oggetto transizionale con cui fare il bello e il cattivo tempo, ma che doveva resistere intatto alle sue distruzioni. Pur rappresentando un anello di congiunzione fra un uso dell'oggetto quale strumento di scarica pulsionale e un oggetto simbolico, tale oggetto era ancora asservito al dominio sensoriale e utilizzato per trasferirvi sensazioni e per consentire agiti, fondamentalmente per essere catturato sensorialmente ma per eludere e denegare una perdita.

Siamo nell'area della pulsione di impossessamento di cui parla Freud (1905, 1913, 1915) e che gli autori francesi (vedi ad esempio Gantheret, 1981) hanno ribattezzato "pulsion d'emprise", differenziandola da un altro concetto, che è quello di "maitrise" (vedi Dorey, 1981), in italiano traducibile forse con "padroneggiamento". Fra la "pulsion d'emprise" e la "maitrise" passerebbe, secondo Dorey, la stessa differenza che c'è fra l'oggetto transizionale di Winnicott e il "Fort-Da" di Freud: diniego della perdita il primo pur nella invenzione di un insieme me-non me; padroneggiamento, ma riconoscimento della perdita, il gioco del rocchetto. Si delineerebbe così il passaggio dal concreto verso il simbolico attraverso l'oggetto transizionale e il gioco. Come dire dal corpo e dal freudiano rappresentante psichico della pulsione, all'oggetto sensoriale e alla rappresentazione di cosa, al recupero dell'oggetto (mentale) sostitutivo dell'oggetto perduto, verso la rappresentazione di parola. O dall'im-pressione dell'elemento beta, dal "seno cattivo" o dal "non-seno" bioniano, alla capacità di com-prensione legata alla funzione alfa della reverie; dai pensieri non pensati (e non pensabili) ai pensieri contenuti nell'"apparato per pensare i pensieri".

Quando maturò il momento opportuno in cui comunicarle che lei tentava di esistere somaticamente per proteggersi dalla sensazione di non esistere col pensiero e di riuscire a pensare l'assenza di altri nella sua vita, la paziente annuì piangendo.

Ho sentito in quel periodo la paziente oscillare fra il ripristino di una "pulsione d'impossessamento" - ponte fra pensiero non pensabile e pensiero pensato - e il tentativo di riconoscere, padroneggiandola, una separazione. Ho avuto anche la convinzione che di entrambe le posizioni avesse bisogno di fare esperienza, recuperandone gradualmente attraverso di me il senso. Quando dico "attraverso di me", intendo alla lettera. Nel controtransfert la sensazione di essere stato "occupato", schiacciato, confiscato da lei, talvolta mi faceva irritare profondamente e mi faceva venire la tentazione di reagire; in alcune occasioni opportunamente, come nel caso in cui dall'irritazione potevo scorgere le tendenze di Petra a manipolarmi e a de-animarmi. Altre volte dovevo tenermi la mia irritazione, che era già qualcosa di definito, o anche il mio stato di tensione, non meglio da me decifrabile, come prova di tolleranza allo sconosciuto, al misterioso, all'inquietantemente enigmatico di cui la paziente aveva bisogno. La mia mente doveva zittirsi, ma la paziente doveva sentire il mio cuore, il mio fegato, il mio "seno", i miei attributi: e per lei non nel loro significato metaforico, quindi già simbolico, ma per le sensazioni sul suo corpo (psiche-soma) che essi inducevano. Per esempio se io avevo, come si suol dire "polso", ciò non la conduceva a riconoscere questa mia caratteristica, quanto a poterne usufruire sentendosi (con)tenuta, bloccata nella sua distruttiva corsa all'incorporazione. Allo stesso modo, ancora, se io ero con lei opportunamente "tenero", Petra non coglieva sempre la mia tenerezza come una qualità accogliente o rassicurante dell'oggetto; quanto spesso per la sensazione di morbido e di adattabile a lei avvertita prevalentemente sulla sua pelle, sul suo corpo che, psichicizzato, funzionava come unica attendibile prova della relazione con me. Anche quando commettevo degli errori avevo la sensazione che questi potessero essere ripresi costruttivamente nel processo analitico a patto che recassero l'impronta di un mio impegno emotivo profondo, partecipe, autentico, ma anche fondamentalmente fedele alla generatività della relazione, e quindi sia ai suoi bisogni che al mio essere analista.

Quando è prevalso "l'impossessamento" l'impressione è stata che questo proteggesse la paziente dal vissuto di un sé senza risposte, cioè dal terrore di una domanda pulsionale non significata più ancora che disattesa, dove vita e morte andavano intrecciandosi senza diversificazione alcuna. Io penso che in questi casi ci troviamo di fronte a un'emergenza pulsionale come pura eccitazione endo-somatica con la partecipazione di un oggetto non significante (il "non-seno" bioniano), rappresentante psichico che non ha perciò, per latitanza di reverie, nessuna possibilità di raffigurazione rappresentativa. A questo livello l'Io corporeo, che ho equiparato all'apparato proto-mentale, non crea - ribadisco - rappresentazioni mentali dell'esperienza, ma genera fantasmi, irrappresentabil.

Quando mi è sembrato che prevalesse la spinta alla separazione, ho avuto la sensazione che questa riguardasse prevalentemente la possibilità che il suo Io sperimentasse anzitutto un "Sé corporeo" in "isolamento non disturbato", non in preda al panico dell'infrazione paraeccitatoria o del caos degli elementi beta. Solo successivamente la paziente ha potuto "pensare" alla separazione come stacco (e perdita) dell'oggetto (dal sé) col parallelo reperimento di rappresentazioni riguardanti sia l'oggetto che il sé.

 

Note conclusive: sospendere il pensare

Quando - come nell'originario - la psiche è ancora "incistata" nel corpo ciò che emerge, in occasioni simili a quelle da me descritte, dalle identificazioni proiettive dei pazienti e dal nostro riscontro empatico a questo livello, non può essere niente di immediatamente raffigurabile. Si tratta infatti di una domanda corporea, a cui si può personalmente rispondere con un pensiero, seppure inaugurale, solo a patto che un oggetto soddisfacente il bisogno abbia lasciato una impronta sufficiente per essere recuperata, in sua assenza, tramite la funzione delle tracce mnestiche; in altre parole solo a patto che un iniziale "apparato per pensare i pensieri" abbia iniziato a strutturarsi e a funzionare per quelle aree psichiche implicate. Se la frustrazione è eccessiva o non tollerata, se si susseguono una serie di esperienze troppo negative con la realtà esterna, le "concezioni" che si formano saranno pensieri senza "apparato" per pensarli: cioè "concezioni" (Bion, 1962) concrete di "seno cattivo" o di "non esistenza di seno". In mancanza di un'oggetto primario soddisfacente (mancanza originaria e/o mancanza da rimozione?) che abbia la forza di inscrizione psichica, nel nostro lavoro potremmo imbatterci in rinnovate domande corporee di simile natura. Sono domande che non possono che essere accolte nel loro naturale luogo di risonanza, il corpo psichicizzato dell'analista: in questi casi il lavoro interpretativo, prima ancora di potere sfruttare una funzione simbolica, necessita, a mio avviso, di un tempo in cui risulta più opportuna e più proficua quella che io chiamo un'interpretazione dei bisogni, che promuova il pensare del paziente. Infatti è certo il pensiero dell'analista, tramite il suo lavoro psichico e il ritrovamento dell'affetto di base dal paziente perduto (o mai reperito), a dare, con la risposta appropriata, senso anche alla domanda; ma è un pensiero, una reverie, rivolta e dedicata al paziente, che ha la funzione di offrire materiale necessario per il modellamento dell'"apparato per pensare i pensieri".

Il senso è dato dall'accostamento e il nesso fra le implicazioni corporee di un funzionamento psichico basato sull'attivazione sensoriale del paziente (e reperibile anche nelle reazioni controtransferali dell'analista) e la rappresentazione d'oggetto implicita nella restituzione di parola fatta dall'analista (per esempio, "d'accordo"). Rappresentare non coincide allora con funzionamento psichico, perché c'è un funzionamento psichico svincolato dalla rappresentazione e ad essa funzionalmente precedente; piuttosto l'attività rappresentativa che recupera l'affetto "bruto", inconscio, nato dal corpo, è il risultato dello psichismo, conseguenza del lavoro psichico. Tale lavoro, se favorito dalla reverie materna, rispetta l'ineffabilità dell'inconscio originario, promuovendone la potenziale creatività, favorendo la formazione del già menzionato "impensabile che fa il pensato" (Pontalis, 1977).

Si tratta di un lavoro psichico talvolta duro in quanto giocato, in registri come quello riguardante la paziente citata, sul filo di un continuo risucchio fusionale da cui talvolta è tanto difficile emergere quanto rispettarne quella quota inerente un significato vitale di esperienza. Sentire con una paziente come Petra indispensabile l'immergersi nel suo mondo, recuperando i suoi oggetti interni per rivivificarli trasformativamente nel transfert, significa probabilmente visitare l'"originario" di un apparato psichico, dove esistono aree indifferenziate. Si tratta di aree dove gli affetti, intesi come stati d'animo che permettono una consapevole attribuzione di senso agli oggetti e alle esperienze della relazione, sono latitanti; permangono invece gli "stati affettivi" arcaici, impregnati di connotazioni percettivo-sensoriali (affetti-sensazioni) che rimandano a quelle condizioni in cui l'oggetto, prima di essere riconosciuto come altro-da-sè, è fondamentalmente un punto del corpo, un vissuto emozionale viscerale, un'esperienza senso-motoria, oggetto senza il quale e al di qua del quale è impossibile sentirsi esistere. Che tale visita sia coronata da successo dipende, io penso, dalla possibilità che l'analista ha di fare temporaneamente il vuoto ideativo dentro di sé, di sospendere il pensare, recuperando il "punto O" bioniano. Da questo vuoto l'analista procede, perché dal "non-sense" e dalla sospensione del pensiero organizzato, attraverso l'attivazione dei sensi degli affetti-sensazioni, possa ricrearsi nella reverie che li rielabora il ripristino di un funzionamento libidico-emotivo, come autentico processo rigenerativo. Questo processo rigenerativo risponde alla stella polare dell'attività dello psicoanalista, che "sente" nel suo preconscio l'attendibilità dell'avventura a cui lo chiama il paziente e "ritrova" attraverso sempre nuove esplorazioni il gusto della libertà del pensare. Avviene così, attraversando il vuoto - all'interno di un autentico cantiere del "pensare" - il passaggio da un mondo fatto di rumori, di colori, di stimolazioni e di sensazioni comunque "corporee", senza senso immediato, a un mondo dove il senso delle "cose" viene reperito. Come in una costruzione dove l'originario privo di senso, piuttosto che essere rinnegato e pur restando per alcuni suoi aspetti inconoscibile come nucleo narcisistico primitivo, va a costituire il seme e le fondamenta di un'identità di base e di una modalità di esistenza relazionale ispirata al piacere della scoperta di nuove prospettive; identità a cui la rappresentazione di parola affettiva, da questi emergente e su questi edificata, dà forma, dignità, statuto di vita.

E' per questi motivi che, pur non considerandomi un analista bioniano, conservo nella mia "galleria" personale affettiva il "ritratto" di Bion fra i più cari.

 

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* (per le Opere di Freud si fa riferimento all'edizione Boringhieri, Torino)


 

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