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Sono
felice di rispondere all’invito ad offrire un commento aggiuntivo alla Sezione
Speciale del primo volume del “Neuro-Psychoanalysis” intitolato “Emozioni:
dialogo neuro-psicoanalitico”. Questa lunga sezione monografica contiene
una rivisitazione della teoria dell’affetto di Freud, seguita da una
tavola rotonda di Jaak Panksepp, scritta dal punto di vista della neuroscienza,
che è poi seguita da commenti di un certo numero di noti neuroscienziati e
psicoanalisti. Suppongo che ciò che potrebbe essere interessante in questo
momento sia aggiungere alcuni pensieri a quanto è stato meno enfatizzato o
lasciato da parte nel dialogo. Farò inoltre una speciale considerazione sulla
dimensione sviluppatrice dell’esperienza alla quale è stato dato
relativamente poco spazio, come Clifford Yorke
e gli editori hanno sottolineato nella conclusione della sezione
speciale.
Lasciatemi
iniziare con una annotazione che porta con sé una precisa riflessione. Possiamo
essere grati ad un dialogo di questo tipo per lo sforzo erudito di incrementare
la conoscenza scientifica comprendendo gli
sforzi empirici che sono cumulativi
e che costruiscono dei collegamenti prospettici tra le neuro scienze e la
psicoanalisi. In termini di ciò che sappiamo riguardo l’affetto, comunque,
sembra giusto chiedersi: è prematuro uno sforzo di questo tipo? Possiamo
rispondere si o no. In termini di
integrazione delle vaste conoscenze di base in ogni campo che possono essere
riassunte da formulazioni teoriche accettate, ciò sembra sinceramente
prematuro. La maggior parte dei commenti in entrambi i campi di studio concorda
su questo fatto. D’altro canto in termini di stimolo alla ricerca non è
prematuro. Seguendo queste direttrici, è importante concentrarsi su utili
teorie speculative (così come su teorie che sono meno utili) ed è importante
concentrarsi su utili ipotesi che possano essere testate (ed essere confermate o
confutate). Soprattutto l’utile dialogo può concentrarsi sui gap nelle nostre
conoscenze che devono essere colmati.
La
revisione di Panksepp è esemplare nel suo tono. Essa chiaramente guarda ai
limiti delle neuro scienze affettive (cose che non sappiamo), così come alle
vittorie del lavoro neuroscientifico in questo campo – cioè, ciò che ormai
è accettato come stabilito e a cui possiamo guardare come conoscenze acquisite.
Lasciatemi fare un paio di esempi riguardo alla teoria delle emozioni. Questi
esempi non solo hanno allargato il consenso in diversi campi, ma sono correlati
con la ricerca sulle emozioni emergente dal campo delle scienze comportamentali
(il quale, curiosamente, non rientra tra quelli compresi nel dialogo originale).
Il primo esempio riguarda l’esistenza di un certo insieme basilare di emozioni
umane, che sono biologicamente stabilite dall’evoluzione, d’accordo con le
osservazioni di Darwin sugli animali e l’uomo (Darwin, 1872) e confermate
dalle osservazioni di scienziati comportamentali (Tomkins, 1962, 1963, 1991;
Ekman, Friesen & Ellsworth, 1972; Izard, 1971). Queste emozioni sono diffuse
in tutta la specie nella loro evoluzione, presentano espressioni facciali
tipiche, e appaiono presto nello sviluppo (anche se ci sono alcune variazioni
in differenti contesti culturali). Come Panksepp sottolinea, queste
emozioni (quali la paura, rabbia, tristezza, gioia, sorpresa, interesse,
disgusto) sono più particolarmente organizzate nel sistema nervoso centrale in
modi complessi che sono più specifici e incanalati che il piacere-dispiacere e
perciò devono essere prese in considerazioni dalla teoria psicanalitica. Anche
se le neuroscienze hanno fatto importanti prelievi per la comprensione delle
basi celebrali per molte di queste emozioni (specialmente con la paura nel
lavoro di Joseph LeDoux e altri), contributi alla loro organizzazione sono
distribuiti o localizzati in certe aree del cervello, e molto rimane da
comprendere. Emozioni più complesse che appaiono più tardi nel corso dello
sviluppo – come l’orgoglio, la vergogna, l’invidia, il senso di colpa, la
gelosia – dipendono da particolari esperienze sociali e, perciò, mostrano
sostanziali variazioni culturali; in misura corrispondente, l’organizzazione
del sistema nervoso centrale è l’incanalamento di queste emozioni e richiederà
ancora maggiori conoscenze dalla biologia dello sviluppo e dalle scienze del
comportamento rispetto a quelle attualmente disponibili.
Un
secondo esempio della teoria delle emozioni riguarda la complessità
organizzata. Mentre cinquant’anni fa si guardava alle emozioni come a stati
intermittenti di reazione che interrompevano un flusso diretto di attività
mentale tra lo stimolo e la risposta, oggi il modo di intenderle è alquanto
differente. C’è adesso consenso
riguardo all’idea che le emozioni si riferiscono invece a costruzioni che
coinvolgono processi attivi, adattativi, crescenti. Che le emozioni abbiano un
ruolo percettivo e di monitoraggio crescente, adattativo e attivo è riflesso
nel dialogo. La complessità del monitoraggio interno degli stati del corpo è
ben rappresentata nel lavoro di Antonio Damasio. La complessità del
monitoraggio esterno, o di ciò che i teorici delle emozioni basate sul
comportamento usualmente descrivono come valutazioni situazionali (Lazarus,
1991), è un aspetto delle emozioni che ricorre in relazione ai ricordi, e tale
aspetto è anche rappresentato nella attuale ricerca nelle neuroscienze. Quindi,
il funzionamento emozionale è composto da un certo numero di componenti
organizzati. Recentemente si è scoperto molto circa i contributi del sistema
nervoso centrale a questo funzionamento – in termini di funzioni della memoria
nelle aree dell’ippocampo e le sue connessioni, così come in termini di
funzioni adattative nella corteccia prefrontale e le sue connessioni – e come
Panksepp indica, molto ancora deve essere appreso. Cosa ancora più importante,
il dialogo ritrae un chiaro percorso di conoscenza crescente che conduce ai
recenti lavori nelle neuroscienze. Curiosamente, comunque, il percorso di
crescente conoscenza è stato lasciato in disparte nella psicoanalisi. La
psicoanalisi, a partire da Freud, vanta una ricca letteratura clinica e una
parte di questa è empiricamente basata e
connessa alla conoscenza derivante dalle scienze comportamentali e dello
sviluppo. Questa letteratura modifica le vecchie idee e conduce ad una visione
simile delle emozioni come referenti ad un gruppo di componenti organizzati
dell’attività mentale. Queste includono componenti nei quali i sentimenti
sono intimamente connessi ad aspetti di cognizione, percezione, memoria,
socialità e motivazione (Basch, 1976; Brierley, 1937; Castelnuovo-Tedesco,
1974; Landauer, 1938; Novey, 1961; Rangell, 1967; Schur, 1969). Tutti questi
componenti possono esser coinvolti in segnali affettivi (signal
affects), dove funzioni anticipatorie orientate al futuro operano sia non
coscientemente, sia coscientemente, e operano nel contesto del conflitto, così
come del funzionamento adattativo non conflittuale (Brenner, 1974; Emde, 1980a,
1982b; Engel, 1962; Joffee & Sandler, 1960; Schur, 1969).
L’esempio
di cui sopra porta ad un problema maggiore che scorgo nella composizione del
dialogo – vale a dire, come la storia è usata nella nuova interdisciplina
iniziata dal “the Journal”.
L’uso
della storia freudiana
Il
dialogo si rivolge agli scritti di Freud degli inizi del secolo per trarne
spunti che possono aiutare a congiungere la psicoanalisi e le neuroscienze
odierne. Per essere onesti, un approccio funzionalista di questo tipo, che
guarda a materiale storico, in modo totalmente costruttivo, è ammirevole. Il
dialogo però finora soffre per due omissioni. La prima potrebbe essere definita
“un problema del salto della cavallina” della storia psicoanalitica; vale a
dire, che come il gioco della cavallina suggerisce c’è un problema dato dal
sorvolo su importanti parti di conoscenza tra Freud e il presente. L’ignorare
la visione delle emozioni quale insieme di componenti nella letteratura clinica
della psicoanalisi, come notato in precedenza, ne è un esempio, così come
l’ignorare la letteratura sui particolari dei segnali affettivi anticipatori,
così come la letteratura clinica psicoanalitica sui particolari delle emozioni
della depressione, della vergogna, della sicurezza, e della sicurezza relativa
all’attaccamento (ad ex. Bowlby,
1969, 1988; Engel, 1962; Sandler, 1960, 1987). E
questi sono solo alcuni esempi. La letteratura psicoanalitica della seconda metà
del XX secolo contiene una summa di conoscenza che va oltre Freud e, negli
ultimissimi sviluppi, contiene ipotesi di lavoro e descrizioni convincenti di
fenomeni clinici che sono utili per le esplorazioni neuroscientifiche. Ignorare
ciò che è stato imparato dall’inizio del XX secolo, tra cui alcune cose che
correggono Freud e molte delle
quali pongono Freud in un contesto più ampio, significa dare un cattivo
servizio da un punto di vista storico.
Una
seconda omissione nell’uso della storia freudiana ha a che fare con la
comprensione delle costrizioni. Senza la comprensione del contesto delle
coercizioni che hanno limitato l’analisi di Freud, c’è la tendenza a
contribuire ad un’inutile polemica nella psicoanalisi. Questa polemica è allo
stesso tempo rispettosa di Freud nel suo discorso o, all’opposto,
irrispettosa.
Una
simile polemica ha poco a che fare con i lavori della scienza, che
necessariamente includono la comprensione dei limiti, il progredire della
conoscenza e il fare proprio il cambiamento. Come è ben documentato, Freud fu
limitato dal contesto della sua vita personale, così come dallo stato delle
scienze ai suoi tempi. Riguardo il contesto personale egli divenne sempre più
isolato dall’Università man mano che prendeva coscienza del distacco
accademico nei suoi confronti e diventava preoccupato per il suo lavoro di
psicanalista e per la corrente di teorie legate alla psicoanalisi. Diventando
sempre più interessato dal significato, le sue formulazioni psicologiche si
allargarono mentre, allo stesso tempo, divenne sempre meno preoccupato di
“ripulire” le sue teorie, eliminando quelle precedenti ed inutili. Inoltre,
come è ben documentato, Freud incentrò la sua preoccupazione su un singolo
metodo, vale a dire quello della psicoanalisi; egli non incoraggiò altre vie
per l’avanzamento della conoscenza psicoanalitica. Dal punto privilegiato di
oggi, si può vedere come molte di queste costrizioni personali limitarono gli
avanzamenti empirici. Le teorie valide necessitano di consistenza e coerenza
poiché sono sottoposte a correzioni e cambiamenti periodici; ancor di più,
molteplici metodi e finestre di osservazione
sono necessari per minimizzare le distorsioni dall’influenza
dell’osservatore su ciò che è osservato.
Freud
fu anche limitato dal contesto dei suoi tempi. Lasciatemi illustrare con un
contrasto tra i suoi tempi e i nostri in termini di cosa oggi vogliamo dire con
“un approccio allo sviluppo”. Nell’interesse dell’efficienza mi rifaccio
ad un precedente saggio sull’argomento.
La
moderna biologia è stata caratterizzata come la biologia della complessità
organizzata e, corrispondentemente, la moderna biologia dello sviluppo è stata
caratterizzata come la biologia della crescente complessità organizzata. Freud,
scrivendo all’inizio del secolo era immerso in uno spirito del tempo (Zeitgeist)
che non includeva tali costrutti sullo sviluppo. Mentre egli divenne sempre più
concentrato sui percorsi del significato nei suoi pazienti (e, in effetti, sulla
descrizione della complessità di questo significato durante lo sviluppo), la
visione guida di quei tempi, che gli forniva la sua particolare lente per
l’analisi del comportamento umano, era limitata dalla seconda legge della
termodinamica e dall’entropia. In accordo con ciò, tutti i problemi, inclusa
la vita, tendevano verso una minor complessità e disordine. La visione di Freud
spesso corrispondeva ad un implicito scadenziario nelle scienze biologiche
quotidiane, vale a dire la spiegazione del
comportamento, riduttiva, in termini di leggi della chimica e della
fisica. La nostra prospettiva scientifica contemporanea è alquanto differente
in quanto dà enfasi alla crescente
complessità organizzativa. Lo sviluppo aumenta, non diminuisce, e perciò può
essere compreso in termini di non entropia (negativo
di entropia, non so come dirlo). Inoltre, attraverso lo sviluppo, si
verificano delle coazioni tra l’individuo e l’ambiente, e tali coazioni
avvengono ad un crescente e differente livello di complessità organizzata
(vedere Gottlieb, 1992; Hinde, 1992).” [da Emde, 1995, p. 135-136].
Non
di meno, nonostante le limitazioni di tempo e luogo di Freud, molte delle sue
idee sullo sviluppo sono degne di nota ancora oggi e, con lo scopo di creare
collegamenti tra le discipline, possono essere trasposte in termini
contemporanei. Un esempio riguarda la teoria dei periodi psicosessuali di Freud,
formulata nei 1905, che oggi può essere vista in termini di sistemi dello
sviluppo. I primi periodi dell’infanzia e della fanciullezza possono essere
visti come livelli successivi di complessità organizzata, in cui le
“trasformazioni della pubertà” introducono una riorganizzazione gerarchica
dei precedenti livelli di organizzazione orale, anale e fallica. Ancora, la
seguente storia della letteratura psicoanalitica è rilevante nella costruzione
di ponti attraverso il tempo e le discipline, particolarmente quando si
considerino le formulazioni sul periodo culturale- sensitivo di Erik Erikson
(1950).
Opportunità
per la psicoanalisi
Tre
altre aree che sono state introdotte dai recenti avanzamenti scientifici non
sono state trattate nel dialogo. Queste aree, secondo la mia opinione, non solo
diventeranno sempre più importanti con l’accumulo delle conoscenze, ma
presenteranno anche maggiori opportunità per i contributi empirici
psicoanalitici nel mezzo della neuroscienza. Il processo del lavoro
psicoanalitico, dopo tutto deve focalizzarsi sul significato dell’esperienza
individuale attraverso il tempo e nel contesto delle intime relazioni nel loro
divenire. Ed è una comprensione individualizzata del contesto ciò di cui ci
sarà sempre più bisogno.
La
prima area non considerata nel dialogo mi ha molto colpito per la prospettiva
della teoria delle emozioni così come della natura del lavoro psicoanalitico.
Da Darwin in avanti, noi abbiamo realizzato che la funzione adattativa
dell’emozione negli animali e nell’uomo consiste nella comunicazione (e
negoziazione), così come nella motivazione. Freud, come detto, è stato un
pioniere della funzione segnalatrice dell’affetto nell’individuo e perciò
ha puntato agli aspetti futuro-orientati della vita emozionale e cognitiva, così
come a quelli orientati al passato.
I processi orientati al futuro solo recentemente sono entrati a far parte della
nostra visione scientifica come risultato dei progressi
sia nelle neuroscienze (specialmente riguardo il funzionamento esecutivo)
sia nelle scienze comportamentali (vedere i numerosi scritti in Haith, Benson,
Roberts & Pennington, 1994). Già da Freud la comunicazione delle emozioni e
l’empatia hanno avuto un ruolo preminente nel lavoro psicoanalitico (per
esempio, vedere Emde, 1991; Kohut, 1971; Lipton, 1977). L’empatia, insieme con
la comunicazione emozionale non cosciente che avviene nel corso delle
interazioni di transfert-controtransfert, è stata intesa come incrementante i
processi analitici di introspezione, riflessione e interpretazione. Mentre
diversi psicanalisti attribuiscono gradi variabili di enfasi all’empatia e
alle altre forme di comunicazione emozionale, tali fenomeni sono riconosciuti
come aspetti vitali dell’esperienza umana che cambiano con lo sviluppo e il
lavoro terapeutico. C’è molto da imparare su questi processi. Per ammissione
generale, le basi del cervello per i processi empatici sono ancora più
complesse dei processi già discussi nel dialogo (come Schore indica così bene
nel suo libro; Schore, 1994). Nondimeno, come si è già accennato, rilevanti
progressi neuro scientifici e psicologici si sono già verificati nella
comprensione di alcuni particolari delle differenti forme dei processi della
memoria emotivamente guidati, con l’inclusione dei circuiti frontale e
dell’ippocampo e anche con l’inclusione di un range di conoscenza non
cosciente e attività mentale più ampio di quanto Freud avesse immaginato (
processi a cui solitamente ci si riferisce come impliciti e procedurali). È
probabile che tali processi producano crescenti scoperte nel prossimo futuro,
così come i processi della
comunicazione del linguaggio hanno prodotto scoperte nel corso di variazioni sia
patologiche sia normali. Inoltre,
così come la variazione nella comunicazione emotiva diventa specificata in
termini dei suoi sostegni neuroscientifici, essa necessiterà di essere compresa
in termini di esperienza individuale. Qui è dove la comprensione psicoanalitica
può offrire un grande spunto. Questa comprensione psicoanalitica non è una
questione banale che può essere vista dal pensiero psicoanalitico contemporaneo
dello sviluppo. C’è ogni ragione di credere, in base all’evidenza delle
osservazioni, che molto del primo sviluppo morale ha luogo in un’area di
attività mentale non cosciente più ampia di quanto Freud avesse previsto, a
cui oggi possiamo riferirci in termini di routine quotidiana con gli altri e
come conoscenza procedurale (Emde, Biringen, Clyman & Oppenheim, 1991; Emde
& Clyman, 1997; Clyman, 1991). Molto
rimane ancora da imparare sul funzionamento di questa attività mentale, sulle
sue connessioni con le emozioni, e sulle sue modalità di espressione. Ma il
primo sviluppo della morale, operante in questo modo, è un aspetto della nostra
scienza dai tempi di Freud e rappresenta un nuovo orizzonte per la
collaborazione interdisciplinare.
Un’altra
area di opportunità in cui la psicoanalisi può dare il suo contributo è
quella del significato della variazione. La comprensione della variazione in
termini di esperienze individuali nel corso dello sviluppo, così come in
termini delle loro conseguenze per susseguenti esperienze, sarà vitale per
l’applicazione di nuove conoscenze rispetto alla prevenzione e al trattamento
del disordine e della sofferenza umana. Una mappatura della variazione
raggiungerà presto una specificazione a livello dei genomi. Sarà quindi
possibile identificare fin dalla nascita, o poco dopo, i rischi relativi a ogni
individuo di sviluppare una panoplia di disordini maggiori e minori. C’è un
fatto comunque che colpisce. Per la maggior parte dei disordini mentali, le
influenze più grandi sono attribuite all’ambiente, non al patrimonio
genetico. Abbiamo assodato questo fatto in termini generali dagli studi sulla
genealogia famigliare, sui gemelli e
sulle adozioni (Plomin, DeFries, McClearn & Rutter, 1997) ma sappiamo molto
poco riguardo le specificità dell’esperienza ambientale. Chiaramente, abbiamo
bisogno di sapere di più riguardo a quelle esperienze individuali durante il
corso dello sviluppo, che costituiranno una differenza, sia nel senso di una
maggior protezione contro il disordine, sia di un maggior livello di rischio. La
prospettiva eccitante è che presto avremo una specificità genetica come base
per apprendere altro ancora riguardo a queste esperienze. In aggiunta, come si
è già accennato, sappiamo dai progressi della genetica molecolare che le
influenze genetiche hanno luogo soltanto in congiunzione con le influenze
ambientali, o nelle “coazioni” come definite da Gottlieb (Gotttlieb, 1992).
Inoltre, le modalità di queste coazioni cambiano durante lo sviluppo e sono
estremamente dinamiche, con transazioni tra
influenze genetiche ed ambientali che si verificano a molti livelli biologici ed
in molti modi.
Il
bisogno di conoscenza sull’ambiente di cui si è fatta esperienza durante lo
sviluppo è diventato un aspetto saliente anche a seguito di progressi
nell’interfaccia tra le neuroscienze comportamentali e dello sviluppo. Le
relazioni cervello-comportamento si sono rivelate essere bidirezionali –
aspetto particolarmente preminente nella prima fase di sviluppo. Una
sovrapproduzione di cellule e sinapsi ha condotto all’apprezzamento del ruolo
dell’esperienza nell’influenzare la “potatura” (pruning)
così come nello stabilire e mantenere dei percorsi. Forse le maggiori influenze
derivano dal lavoro di Greenough e colleghi (1987) che ha concettualizzato due
tipi di esperienza che sono necessari per supportare connessioni neuronali
biologicamente preparate e adattivamente rilevanti nel cervello in via di
sviluppo. A queste ci si riferisce come a “esperienza - aspettativa” (experience-expectant)
(esempi sono alcuni input ambientali primari necessari per gli aspetti di
sviluppo visuale del cervello, e alcuni input che sono invece necessari per
aspetti di sviluppo del linguaggio) e “esperienza dipendente” (quali input
all’apprendimento che possono influenzare lo sviluppo del cervello in modi più
variegati e meno limitati nel tempo).
Un
altro aspetto fondamentale, abbastanza rilevante nel contesto di cui sopra, ad
essere stato escluso dal dialogo riguarda il temperamento,. Il temperamento può
essere inteso come una predisposizione biologica a rispondere emotivamente in
certi modi quando l’individuo si trova in determinati contesti ambientali.
Duraturi percorsi (di sviluppo) del temperamento variano, dal momento che
l’individuo differenzia le sue caratteristiche, presumibilmente come riflesso
della variazione genetica. Anche se molto rimane da comprendere riguardo al
temperamento, è certo che la nostra comprensione sarà rafforzata da una più
precisa conoscenza e identificazione della mappa genetica degli individui,
specialmente se il significato dell’esperienza e cosa cambia l’espressione
genetica verrà capito con una certa profondità e attraverso lo sviluppo. La
nostra conoscenza del temperamento e delle sue basi neuroscientifiche
è forse progredita maggiormente grazie all’idea del temperamento
descritta da Kagan e colleghi come inibizione comportamentale. Ad essa si può
pensare come ad una predisposizione al timore e alla fuga, che si verifica
quando un individuo è esposto ad un ambiente non familiare. Kagan ha costruito
un argomento coerente per gli estremi dell’inibizione comportamentale che si
verificano in quegli individui che hanno una predisposizione genetica ad
un’eccessiva attività in particolari nuclei dell’amigdala.
L’evidenza
suggerisce inoltre che gli estremi dell’inibizione comportamentale possono
essere un fattore di rischio per i disordini dell’ansietà nei bambini piccoli
e le implicazioni per la prevenzione di ciò stanno diventando un punto di
interesse. L’inibizione comportamentale può essere identificata nei primi due
anni di vita ma, cosa importante, alcuni tipi di esperienza in ambito familiare
è risaputo possano trasformare sia lo sviluppo del temperamento, sia le sue
caratteristiche, includendo il fatto che la propensione alla paura possa non
persistere (Kagan, 1994). Non ho dubbi che l’analisi psicoanalitica infantile
delle esperienze individuali di certi bambini e delle loro famiglie possa
contribuire ad una maggior comprensione di queste ed altre transazioni
ambientali coinvolgenti il temperamento. In modo similare, tali esplorazioni
possono contribuire alla comprensione di cosa fa la differenza in una varietà,
ancora da specificare, di condizioni di rischio e di incapacità nello sviluppo,
che saranno delimitati dalla specificazione genetica.
L’area
finale del mio commento sul dialogo riguarda l’etica. L’etica non è stata
un tradizionale punto di studio dell’esplorazione psicoanalitica. Non di meno
sono profonde le imminenti opportunità che si presenteranno in virtù degli
avanzamenti della nostra conoscenza dei particolari della variazione genetica,
così come la nostra conoscenza dei particolari dello sviluppo cerebrale in
relazione all’esperienza. Più comprendiamo sul significato dell’esperienza
individuale nel corso di specificate variazioni biologiche e sulle sue
conseguenze sullo sviluppo, più possiamo aggiungere informazioni alle nostre
discussioni generali riguardo lo spiegamento di risorse limitate per la
prevenzione e gli sforzi di intervento sugli individui. Più comprendiamo sul
significato dell’esperienza individuale in relazione ai suoi sostegni (underpinnings)
neuro fisiologici, più possiamo informare in discussioni etiche che coinvolgono
pazienti individuali e le loro famiglie – discussioni che possono dedicare la
massima attenzione alla dignità umana, agli aspetti emozionali della qualità
della vita e al potenziale umano. Poiché la crescente conoscenza continua a
portare ad un allungamento della speranza di vita per molti, e dato che
diventiamo coscienti dei costi che perciò dobbiamo sopportare, così come della
ineguaglianza della distribuzione delle risorse finanziarie, sembra imperativo
che la psicoanalisi si unisca alle neuroscienze nell’esplorazione di tali
incerti orizzonti.
Risposta di Jaak Panksepp
Robert
Emde aggiunge alla discussione una varietà di importanti dimensioni che non
erano state enfatizzate nel dialogo iniziale. Il suo saggio fornisce un utile
approccio ad una varietà di tematiche (issue)
critiche, e presumibilmente le tematiche future del giornale
continueranno a evidenziare la
massa di conoscenze che è emersa dalla tradizione psicoanalitica – incluso
“la visuale che i componenti hanno delle emozioni nella letteratura clinica
psicoanalitica … la letteratura relativa ai particolari del segnale
anticipatorio influenza … e delle emozioni della depressione, della vergogna,
della salvezza (safety)
e della sicurezza relativa all’attaccamento… includendo la letteratura
psicoanalitica della seconda metà
del XX secolo… che … contiene ipotesi di lavoro e descrizioni persuasive di
fenomeni clinici utili per esplorazioni neuro scientifiche.”
Certamente
uno dei maggiori risultati di questo dialogo interdisciplinare è avere la
distinzione (subtlety?)
di psicoanalitica, anche se
fornisce nuovi modi di guardare alle
azioni integrative del cervello/mente – assumendo forse le problematiche della
repressione, del trasferimento e delle ripetizioni compulsive a un ruolo
centrale in questi sforzi. Tutto ciò ci aiuterà ad assumere “un punto di
vista storico che ponga il pensiero freudiano in un contesto più ampio e
profondo”.
Emde
enfatizza l’importanza dell’arrivare a relazioni con “empatia e
comunicazione emotiva” specialmente “durante interazioni di trasferimento
contro-trasferimento”, che sono da intendersi
“come integranti i processi analitici di introspezione, riflessione e
interpretazione.” E’ chiaro che “molto resta da imparare riguardo i lavori
di questa attività mentale, le sue connessioni con le emozioni, e i suoi modi
di espressione.” Abbiamo bisogno di
molta più “conoscenza riguardo gli ambienti di cui si è fatta esperienza
durante lo sviluppo”. Un altro aspetto fondamentale che merita una maggiore
attenzione è il temperamento a cui “si può pensare come ad una
predisposizione biologica a rispondere emozionalmente in certi modi, quando ogni
individuo si trova in un determinato contesto ambientale.”
Infine
Emde enfatizza le molte tematiche dell’etica che emergono da questa nostra
nuova conoscenza. Per dare la piena importanza a questo punto: “l’etica non
è stata un tradizionale punto di studio dell’esplorazione psicoanalitica. Non
di meno sono profonde le imminenti opportunità che si presenteranno in virtù
degli avanzamenti della nostra conoscenza dei particolari della variazione
genetica, così come la nostra conoscenza dei particolari dello sviluppo
cerebrale in relazione all’esperienza. Più comprendiamo sul significato
dell’esperienza individuale nel corso di specificate variazioni biologiche e
sulle sue conseguenze sullo sviluppo, più possiamo aggiungere informazioni alle
nostre discussioni generali riguardo lo spiegamento di risorse limitate per la
prevenzione e gli sforzi di intervento sugli individui. Più comprendiamo sul
significato dell’esperienza individuale in relazione ai suoi sostegni (underpinnings)
neuro fisiologici, più possiamo informare le discussioni etiche che coinvolgono
pazienti individuali e le loro famiglie – discussioni che possono dedicare la
massima attenzione alla dignità umana, agli aspetti emozionali della qualità
della vita e al potenziale umano.”
Lasciatemi
concludere questa sinossi del saggio di Emde enfatizzando la sua idea che le
nuove scoperte della Neuroscienza ci costringono a confrontarci con scelte
etiche profonde come quelle che
emersero dal potere della fisica nucleare. Come affronteremo queste
problematiche sarà decisivo per la comparsa di tradizioni culturali che possano
magnificare o sminuire lo spirito umano. Io penso che il tipo di immagine dei
processi emozionali che ho cercato di comprendere nella definizione
“Neuroscienza Affettiva” ci aiuti a puntare verso positivi cambiamenti
culturali che ci possono aiutare ad affrontare creativamente e positivamente
questa nuova conoscenza.
La
mia lettura dell’evidenza è che i profondi valori emozionali vengono
costruiti nel cervello in un punto iniziale dell’evoluzione, e che
la nostra inclinazione per il relativismo culturale e la presunta
arbitrarietà dei valori può essere contrastata dal fatto che noi siamo
significativamente simili, creature profondamente emotive al centro del nostro
essere. Un futuro positivo per il mondo può essere auspicato/promosso se
riconosciamo che molti di questi valori evolutivi sono quelli che condividiamo
con gli altri animali, e che ci forniscono un senso di continuità con il mondo
naturale che deve essere incorporato come fondamento del nostro pensiero, se
abbiamo intenzione di fare di questo mondo un posto migliore.
La
disciplina della Neuro – psicoanalisi potrebbe infine essere un esempio di un
modo per rimanere profondamente scientifici, sebbene non nichilisti, nei
confronti della natura umana.